01/05/06

Viaggiatore in Augusta

Gente fiera,
di solare passionalità
con l’affetto nell’animo
i cuore nel perpetuo.

Augusta;
città che regala
palpitanti espressioni
che fa riscoprire “il gusto”
di mai accantonati valori.

Amata, sarà la meta!

E col tempo continuerò
a desiderarla…
mentalmente mi farò
trascinare
dalla maestosità del mare,
che bacia
mirabile Lembo
d’incontaminata semplicità
e mi fa accomunare
e soggiogare
al linguaggio dell’invocazione



Cappelloni Gastone

Quasimodo

La sera quando tutto tace
e oscuri pensieri evaporano
lasciando il posto alla serenità
mi trasporti tra i tuoi sogni
Con suoni di marranzani e di conchiglie
soffiati dai pastori, o andare
su e giù per il Platanì
o le arse terre del Sud o per navigli
inghirlandati di nebbie
ed urla di mitiche sirene.

E’ un andare felice tra le tue rime,
momenti veri che mi ricordano l’infanzia
con le sue gioie, con i suoi stenti.

Ma noi ragazzi di quel tempo
come i tutti i ragazzi della vista
non capivamo le lacrime della “madre”
i suoi deboli sospiri e sognavamo
ad ogni nuvola pozzanghere e arcobaleni
mentre la zingara ci donava la fortuna
all’indimenticabile suono di un organino



Lino Giarrusso

Tratto da "I venditori ambulanti"

A volte giocando penzolanti dal carramatto di Baldassarre, capitava di incrociare u ricuttaru, e allora volentieri saltavamo giù per avvicinarsi a lui. Il baffuto venditore per poter raggiungere il nostro paese con il latticino ancora caldo, aveva armato con un gran contenitore cubico in legno il portapacchi posteriore della mitica motocicletta rossa Motom. Container che ogni mattina colmava di cavagne grondandi ancora il tiepido siero giallastro del latte, sistemandole tutte accucciate, testa e coda, a solari, alla maniera di quando si salano le acciughe nel barilotto; trovando in un cantuccio anche lo spazio per alcune fiscelle di giunco colme fino all’orlo di quell’ottima ricotta di latte di pecora.
Mentre il ricottaro era intento a fare scivolare il molle e fumante ripieno delle cavagne nei piatti tenuti in mano dalle donne, noi bambini infilavamo l’indice negli astucci di canna, che di volta in volta svuotava e appendeva per il pendutolo di raffia all’uncino rugginoso attaccato fuori il cubo, per rastrellarvi i residui grumetti di ricotta rimasti attaccati e buoni da leccare.
Soltanto cento liberatorie lire mi affrancavano da quel gioco, permettendomi di comprarne una piena tutta per me che mi deliziavo a sorbire come fosse una bibita , mettendo in festa il mio palato che con indicibile piacere pasteggiava e assaporava il gusto del latte di pecora, insaporito da quella leggera punta di fumo provocato dalla legna consumata dal fuoco che la mattina presto alla mànnira aveva scaldato la quarara. Infine, dopo averla svuotata, appagato appendevo la lavagna all’uncino, ma non prima di averci guardato dentro ed essermi assicurato d’ averla nettata a dovere.
Quando al ricottaro non s’avvicinava più nessun cliente, egli dava l’ultimo richiamo, un colpo secco di pedale del motore e, togliendo il cavalletto, montava in sella, e ritornava a gravare con l’intero negozio sulle sommesse ruote della Motom.
Rivedo ancora oggi quell’uomo baffuto montare in arcione alla Motom e puntare con le gambe divaricate i piedi a terra, riassettarsi la coppola dalla visiera unta, e dare il mezzo giro alla manopola dell’acceleratore facendo scoppiettare il motore, che nonostante il peso di quel negozio e del suo negoziante, lasciandosi dietro una nuvola di fumo, riesce ugualmente a dare l’abbrivio a quel corpo unico, facendolo scivolare verso un’altra cantoniera, verso una nuova sosta dove bandire il prelibato latticino gridando <>
C’erano Salvatore, Torretta e Ferraguto, che pedalavano in sella alle loro chimere per metà prore di barca e per metà tricicli. Esse verniciate di bianco e bordate d’azzurro, sulle murate avevano dipinto in elegante corsivo la scritta “Gelati”, mentre nel cuore ghiacciato del loro fasciame trasportavano granite al gusto di limone, mandorla e cacao.
I gilatari, sin dalle prime ore del mattino si annunciavano con un caratteristico sibilo acuto e intermittente del fischietto, a cui seguiva il grido <<>. E il loro passaggio non poteva che essere l’arrivo del fresco companatico per la particolare colazione estiva dei paesani fatta, per l’appunto, di pane e granita.
Passava per le vie anche l’indimenticabile venditore da Citrata i Morica, dolce realizzato con zucchero e scorza di cedro. L’omone, con la coppola dall’aspetto piacevole, indossava sempre sopra una candida camicia il gilè nero. Spingendo a braccia il carrettino, squarciava il silenzio del primo pomeriggio con la sua possente voce tenorile, magistralmente usata per bandire la cedrata. Egli è stato l’unico venditore ambulante forestiero, ad avere riconoscenza della benevola fiducia dei suoi clienti del mio paese. Riconoscenza per oltre cinquant’anni d’interrotta attività, manifestata per sua volontà dal figlio sui manifesti listati a lutto che annunciarono alla città la sua dipartita. Mesta notizia che procurò a molti la sincera commozione, oltre il risentire l’eco del suo grido dal registro acuto ed esteso che diceva <<>>.
Rammento che, puntualmente tutte le sere sotto la gradinata del Cinema Kursaal, sostava un carrettino illuminato da una piccola lampara da pesca alimentata a gas, dove si vendevano lupini, semi di zucca salti, noccioline americane, ceci e fave abbrustoliti. Il luppinaro pesava la merce sulla bilancetta appesa ad una struttura di legno dotata di cassettino, dove apparivano ormai sbiaditi i motivi ornamentali presi dal carretto siciliano e un fiocco rosso scolorito, da cui penzolava il caratteristico amuleto a forma di corno, elemento indispensabile per tenere lontano le forze malefiche e pericolose sprigionate dai possibili occhi rassi e mmiriusi.
Per le strade capitava d’incontrare anche chiddu do ferru vecchiu, che per poche lire acquistava qualsiasi cosa fatta di metallo prediligendo però quelle di rame. Oppure u siggiaru, che girava con gli arnesi sistemati nel tascapane portato a bandoliera, e lavorava davanti le porte riparando le maglie di giunco dei sedili di qualche Thonet d’epoca o sostituendoli completamente con dei nuovi di compensato stampato, certamente più sbrigativo ed economico. E ancora u mmola forbici e cutedda, l’arrotino anche lui con la Motom rossa, con la grossa pietra mola fissata sul portapacchi posteriore e collegata per mezzo di una cinghia alla ruota motrice.

Il coccio

Un angolo di Augusta
affacciato sul mare,
e immerso fra fiori e piante,
da cui vedere
il sorgere del sole, o godersi la frescura
nelle calde sere estive.
La pietra giallina e porosa
appare come la pelle
di un essere vivente
che senza tempo
é diventato custode
di tante emozioni



Andrea Durante

La Croce del Venerdì Santo

Gli ultimi istanti di notte
sono volati via,
spinti lievemente
come da un refolo dall’aurora.
Lentamente le acque del Xifonio
s’offrono al nuovo mattino.
Sulla piazza delle Grazie
il sole svela la spoglia croce,
immagine della pasqua augustana.
Sulla strada piena di gente,
s’ode solo il rumore dei passi
e il toc toc dei bastoni dei babbalucchi.
Avanza cadenzata
l’urna del Cristo,
e sulla piazza
la luce del giorno
illumina la scena,
del chicco di grano morto
per portare molto frutto.


Andrea Durante

Vanedda‘ i San Giuseppi

Vanedda c’ha m’ha vistu nicareddu
unni la vita mia passau d’incantu,
sprucchiatu allura comu ‘n passareddu
dilizia di’ la genti a’ lu so’ cantu.
Vanedda, ricurdanniti, iu chianciu
Lu tempu di’ li tempi mei passati,
e speru e a ‘dda speranza iu m’agganciu
c’ha li ricordi nun si su’ affussati.
Penzu a cu’ t’abbitava o vanidduzza
di ‘m pizzu a l’autru pizzu di la strata,
‘ a vecchia, a signorina e la nicuzza
vanedda ‘ i San Giuseppi mai scurdata.
Lu lettu to’ di fangu, petri e terra
era lu nostru campu di battagghia,
unni c’ha ni facevumu la scerra
e ni fineva a corpa ‘i balli ‘i pagghia.
Cu’ ci pinsava a ‘st’ira assai muderna
cu’ è c’ha ci pinsava a’ lu prugressu,
vanedda mia ddu’ tempu chiù nun torna
chistu’ è lu tempu c’ha ni porta ‘o fossu.
Ora, nunn’è pi’ diri lu to’ vantu
c’ha scrittu ‘sti du’ versi di puisia,
a tutti banni iu sempri t’avantu
pirchì ricordu ‘a giuvinizza mia.
Nu mi li scordu no li cosi antichi
e nun mi scordu la mo’ giuvintù,
l’amici Iani, Peppi Turi e Michi
tempu passatu c’ha nun torna cchiù.
Finisciu li mo’ versi e lu mo’ cantu
e nun ti scordu cchiù stratuzza mia,
vanedda ‘i San Giuseppi si’ lu vantu
da’ giuvinizza e la vicchiania mia.




Fortunato Armenio (Augusta Settembre – Ottobre 1983)

Vecchio vicolo (vicolo cappuccini)

Ed ora sono un vecchio vicolo
col pozzo coperto dalle erbacce
e il fico a fianco come un paladino.
Sono un vecchio vicolo
senza schiamazzi di bimbi che si azzuffano
né il vociar sottile delle comari
col suo da farsi, né galli
alla stella dell’alba
ad annunciare il giorno.
Sono rimasto solo
sulle finestre non più verde basilico
né panni appesi ad asciugare al sole
né l’asino irrequieto pronto a valicar
nuovi sentieri, né il canto
d’una serenata alla bella del cuore.
M’hanno lasciato solo
per accendere nuovi falò
in tipiche alveari di cemento
dove non s’ode l’allegria dei vicoli
Ma sospirati ‘giorno? E buonasera




Lino Giarrusso

Porta Spagnola (memorie di ergastolano)

Porta spagnola
incubo di disperazione
e di dolore
odo i passi strascicati
e le allegre risate
di fidanzati
nel ricordo triste come fosse ieri.
Ieri e oggi
intermezzo di tempo
e un grandissimo nulla


Lino Giarrusso

Augusta Mia

Augusta mia, terra di suli e d’amuri,
tutta vagnata di l’azzurru mari,
quantu ti fici, si, ppi fariti ammirari.
Magari ca ne seculi fu amara la to sorti,
picchi troppi guai ti purtarunu morti
guerri e tirrimoti suppurtasti,
ma sempri cchiù bedda rinascisti.
Ricchezza si ricava do to portu,
magari e stranieri da cunfortu!
Vaddannu a tia si scordunu di suffriri
e tutti ti salutunu prima di partiri
prigannu Diu di farli riturnari
picchi a to aurora vonnu ancora ammirari.
Ti vogghiu beni assai,
cara e duci città natia,
è comu na malatia
ca di tia nun mi fa scurdari mai;
e si sugnu custrittu gnornu a te lassari,
intra lu senu to, prestu vogghiu turnari.
Ma nta na città nun si è tutti rosi e ciuri,
c’è sempri na spina ch’a genti fa trivuliari:
sunnu li politici to ch’annu bisognu di curi
ppi putiri onestamente guvirnari;
accussì sta genti nostra finisci di suffriri
e di paci e binissiri tutti quanti gudiri.


E. Buccheri

Serata Ustanisi

Augusta Mia

Porta Spagnola (memorie di ergastolano)

Vecchio vicolo (vicolo cappuccini)

Vanedda‘ i San Giuseppi

La Croce del Venerdì Santo

Il coccio

Tratto da "I Venditori Ambulanti" di Romano Salvatore

Quasimodo


Viaggiatore in Augusta