16/11/03

La Casa di Lui/Ella

di Natalia Becera Cano, Prima Classificata

Chiamarlo racconto, questo scritto, è riduttivo. Vi si intuisce anche un intento didattico, una lezione, percepibile da un pubblico di ogni età, la quale, affrontando il mistero della metamorfosi, qui seguita giorno dopo giorno nella vita di un anfibio, può essere traslata e indirizzata all’uomo in genere il quale, come nella Metamorfosi di Kafka, si trova a vivere talvolta momenti traumatizzanti ai quali è impossibile sottrarsi, e che tuttavia è necessario accettare come naturali. La gradualità attenua il trauma, ci lascia capire l’Autore, ma non si può ignorare che la Natura, quella del principio del principio del principio, non può subire impunemente violenza, essendo destinata a riprendersi la sua libertà, a scappare dalla finestra, a rifugiarsi in un luogo irraggiungibile dall’uomo.
Abbiamo detto che il racconto è essenzialmente didattico, scientifico, dove proprio la scienza corre con la fantasia, senza comunque farsi da questa sopraffare.


E’ difficile comunicare con voi, ma è la forza della verità quella che mi spinge a rompere le barriere dell’impossibile per dirvi che…
.. è bello ricordare come era all’inizio la mia vita, piena di acqua, luce, caldo e cielo. Prima all’inizio dell’inizio, la mia casa era una gran massa di liquido trasparente pieno di nutrimento e con tanto spazio che non avevo difficoltà a nuotare. Da lì, sopra la mia testa, nei momenti di chiarezza si vedeva la volta celeste azzurra; ma quando una cosa che sembrava una palla piatta di fuoco si nascondeva dietro le nuvole, o queste, non so per quale ragione diventavano nere, quello stesso cielo si faceva nerofumo.
Allora la mia acquosa casa, con il soffitto azzurro o nero grigio piombo, ed io eravamo un tuttuno. Se in essa succedeva qualcosa, qualcosa succedeva in me e , se dentro me cambiava qualcosa, in essa cambiava qualcosa.
Questa casa mia, quella del principio del principio, era anche costruita da rumori, da suoni, da silenzi, da mormori, da canti, da sussurri. Era bella. A momenti i canti dei miei parenti facevano si che io entrassi in uno stato di meditazione e di non esistenza indescrivibili. A momenti sentivo anche le vibrazioni che provocavano le gocce di pioggia sulla superficie dell’acqua. Ognuna di esse tutte insieme. In altri momenti godevo del canto di alcuni esseri alati, torbidi, che si muovevano armoniosamente da una parte all’altra dell’azzurro cielo. Tuttavia, quando questi alati cantori si avvicinavano, e sentivo il rumore delle loro teste affacciandosi all’acqua, la mia casa in questo preciso istante era fatta di paura, di pericolo. Allora io scappavo, nuotavo con tutte le mie forze fino a non sentirli più.
Così tra suono e suono, canto e sussurro, il silenzio si stabiliva ed allora la mia casa era fatta di pace infinita, io e lei vincolati a un unico ritmo, io e lei un tuttuno e distinti.
Un giorno, io stesso scoprii che mi ero trasformato e feci un movimento strano che mi tirò fuori dall’acqua, o da quello che dovetti identificare in quel momento come”fuori da” e chiamare terra ferma. Fu allora così, come partendo dal mio cambiamento, che la mia casa si ingrandì ed io, ormai non soltanto nuotavo, ma anche saltavo. Questa terra ferma, casa prima implicata nella pozzanghera dove abitavo all’inizio dell’inizio, mi cominciò a rivelare i suoi misteri.
Da questo mio nuovo posto non solo riuscivo a vedere chiaramente pezzi del cielo azzurro, ma soprattutto riuscivo a vedere le più svariate sfumature di verdi, gialli e rossi. Quando saltavo il panorama di colori e di suoni si ampliava. Trovai quindi che la mia casa non aveva limiti spaziali e che la mia vita trascorreva tra momenti di luce e momenti di oscurità. Tra suoni e colori che erano in sincronia con la luce e tra suoni e “colori” che lo erano col buio. Fu qui dove ebbi una sensazione indefinita e familiare, che, dopo avere vissuto in una terza casa, potei chiamare libertà.
In un momento di luce, al quale alcuni esseri chiamano “giorno”, saltavo tranquilla cercando alimento. All’improvviso sentii che non potevo muovermi più, che non potevo saltare, né nuotare e che neanche potevo vedere la luce. Pensai che ero morta, ma riflettendoci, già più calma, mi resi conto che tutto il mio corpo si spostava nello spazio ed ogni tanto vibrazioni molto forti mi facevano sentire la testa come un yo-yo. Sali e scendi. Si, io rinchiusa in non so che cosa, tanto grande quanto il mio corpo, mi muovevo al ritmo di un altro corpo i cui passi riuscivo a percepire. Più tardi compresi che stavo cambiando casa.
Non so come arrivai in quel luogo, non so esattamente che fu quello che accadde, ma quando tornai in me, mi trovai in una “specie di posto”; intorno a me c’erano pietre, alcune foglie mezze verdi e terra, ma non come quelle della mia casa anteriore. Avevo una sensazione strana, sospettavo che qualcosa fuori di me, incontrollabile, aveva rotto quella magia del mio posto del principio del principio. Questa situazione si concretizzò in terrore quando mi resi conto che saltando verso l’alto o in avanti, la mia testa e il mio corpo si schiantavano contro qualcosa che sembrava un soffitto e delle pareti invisibili. Non capivo dove ero; la mia vita ora non trascorreva tra momenti di oscurità e luce, ma trascorreva in una penombra eterna, tra i falliti salti e le paralisi del terrore. Di conseguenza il mio corpo ormai ridotto a uno spazio dove non potevo muovermi a mio agio cominciò a dare periodicamente salti brevi da un lato all’altro, senza nessuna ragione.
Questa fu la mia terza “casa” , separata da quella del principio del principio, di quella della terra ferma che prima era implicata in quella dell’inizio dell’inizio e che dopo fu una cosa sola con essa. A questo punto, qui in questa casa, non mi sentivo più vincolata dal ritmo della mia casa, dai ritmi della natura. Semplicemente questa non era la mia casa.
Ogni tanto, arrivava un essere che aveva grandi estremità che non erano quelle mie, e mi buttava il mangiare. Seppi che era questo perché in un occasione esplorando lo assaggiai e somigliava al mio, soltanto che io non dovevo cacciarlo. Allora comincia a comportarmi di un modo strano di fronte al cibo che mi si offriva; inventai tutto un rituale di movimenti che fino a quel momento per me risultavano sconosciuti: piccoli e ridicoli salti, uno due tre!, in avanti, uno due tre!, indietro.
Pertanto fu in quello spazio di casa che scoprii quelli che erano i limiti imposti da un altro che non mi somigliava affatto. A volte, da lì, riuscivo a scorgere la mia vecchia casa. La vedevo quando saltavo ed ancora la stanchezza per i colpi alla testa non mi aveva vinto. La vedevo quando la mia pelle sentiva la luce ed il mio corpo si girava per affrontarla. Quella luce che proveniva da una specie di buco rettangolare che si “apriva” a momenti, quando quello che si prendeva cura di me lo toccava.
Quei momenti della mia vita, senza i miei suoni abituali, con un po’ d’acqua, appena per inumidire il mio corpo, senza la mia apprezzata luce, con i miei rituali e le mie stereotipie, furono i peggiori di tutta la mia esistenza.
Un giorno per puro caso, a mia sorpresa, feci un salto e mi resi conto che il soffitto trasparente non c’era più, di modo che decisi di saltare più in alto, finché riuscii a superare quella prigione di pareti trasparenti. Spinta per una forza segreta continuai a saltare, fino a quello che oggi so voi chiamate finestra; quel buco rettangolare da dove proveniva la luce che la mia pelle identificava come una sensazione visuale conosciuta. Saltando, saltando ritornai a percepire i miei svariati verdi, gialli e rossi, sentii i rumori della mia antica casa e riuscii a sentire il suono dell’acqua e i canti degli alati esseri. Arrivai fino all’acqua , vidi gli insetti che volavano e mi misi a nuotare.
Ora, finalmente, posso dirvi che la mia casa, la verde, l’azzurra, quella dei rumori, quella dei suoni, quella dell’aria, quella della luce è ciò che mi fa sentire che anch’io sono la Natura . Quella del principio del principio legata alla terra ferma.
Ogni tanto sento i passi di quell’essere che somiglia a voi ed al quale devo il fatto di aver potuto dare il nome a questa sensazione di libertà che mi dà la mia casa. Quella del principio del principio, quella di sempre…
Casa di Anfibio.

Lettera d’Amore

di Angela Rizzo Mazara del Vallo (Trapani), Terzo Classificato

Assistiamo, nel racconto, come davanti ad uno schermo cinematografico, al materializzarsi di una lettera d’amore diretta in effetti a noi stessi, che siamo sempre eredi di colui al quale la lettera sembra essere indirizzata. Quel qualcuno che non c’è più, il padre nel racconto, del quale ricordiamo tutto, è in effetti la forma materiale, fisica, che diamo ad un viaggio sentimentale che ci piace percorrere o ripercorrere alla ricerca di momenti perduti, occasioni mancate, parole non dette, consigli non ascoltati.
E’, questa lettera d’amore, un delicato lavoro di cesello condotto nel labirinto dei sentimenti, ma nel contempo una disperata ricerca di quello che l’Autore poteva essere e che oggi, da adulto, non potrà essere se non il riflesso di colui, il padre, che oggi non c’è più.

Carissimo,
soffia un fortissimo vento di scirocco e lo sento attraversare il fogliame degli alberi, scuotere le imposte, generare scompiglio come una divinità collerica e impetuosa. Ho spento già la luce e assaporo la sicurezza del mio letto, circondata dal contorno dei mobili che si stagliano nella penombra. Sai che non mi piace dormire nell’assoluta oscurità: voglio intravedere, attraverso le persiane socchiuse, il chiarore dei fanali della strada, che amo più di quello lunare, così freddo, estraneo, lontano dall’uomo e indifferente alla sua sorte. Ai miei occhi, la luce artificiale è una conquista così importante dell’intelletto che, al suo confronto mi appare scialbo il brillare delle stelle.
Tu, invece, amavi il buio assoluto e chiudevi ermeticamente le imposte, avvolgendoti nell’involucro di un riposo che non concedeva alcun spiraglio al mondo esterno.
Eppure, quante volte hai vegliato sotto la luminosità del cielo notturno! Imprigionato nella tua divisa, durante la guerra e durante la pace, chissà quali pensieri hai inseguito!
Sento l’impulso di chiamarti, ma devo soffocarlo. Troppe volte sono caduta nella ragnatela della nostalgia e ho cercato un contatto con te, puntualmente delusa dal silenzio. Gli anni sono trascorsi così in fretta! Avevi ragione tu quando mi spiegavi che la vita è una precipitosa corsa verso un traguardo non desiderato, al quale si arriva senza fiato e senza forze, con il rimpianto di non avere soffermato lo sguardo sui particolari del cammino percorso.
Ti ascoltavo distrattamente, spesso annoiata, con l’arroganza e l’ignoranza di chi crede di avere davanti a sé il mondo intero. Adesso sì, adesso che il tempo mi ha insegnato abbastanza e ha piegato la mia superbia, adesso sì che m’interesserei alle tue riflessioni.
E’ tardi. L’orologio sul comodino esegue fedelmente il suo compito e continua a scandire le ore, i minuti, i secondi con la stessa stolida precisione del boia che prepara il cappio, del comandante che ordina il massacro delle sue truppe, del chirurgo che esegue scrupolosamente un intervento di cui conosce a priori l’inutilità.
E’ tardi. Devo cercare di riposare. Domani dovrò rispondere, come sempre, alla curiosità dei miei alunni e fornire risposte adeguate alle loro esigenze. E’ necessario che mi presenti in condizioni fisiche e mentali perfette.
Devo essere in forma, devo, devo… Perché obbedire al senso del dovere che tu hai sempre rispettato? Perché essere schiava di questo imperativo, talmente connaturato in me da non riuscire a trasgredire e vivere senza imposizioni, come una creatura libera e ignara del domani? Mi hai fornito un esempio e io l’ho seguito: ormai è parte integrante del mio DNA.
La forza del vento è aumentata. Qualcosa rotola nel balcone del piano sovrastante, un sibilo carico di minacce turbina tra i palazzi del quartiere e diviene frastuono. La furia della natura mi ha sempre galvanizzato, risvegliando nel mio corpo un’ animalesca vitalità che percorre la spiana dorsale e raggiunge il cervello, stimolandolo a percezioni inusuali.
Ti voglio bene, più di quanto immaginassi quando vivevamo insieme e dividevamo le consuetudini e i gesti ordinari di una vita apparentemente banale. Ti voglio bene e mi manchi più di quanto avessi creduto!
Sono stata scostante e impaziente, eppure avrei potuto sfiorare la tua anima. Non posso chiamarti per dirti che adesso potrei farlo. Non mi risponderesti.
Chissà come il mare è flagellato stanotte dalle sferzate del vento, quel mare così limpido e sereno in quelle stagnanti giornate estive in cui, insieme, ne gustavamo il refrigerio. E’ importante galleggiare e tu mi istruivi in questa importante conquista. Sentivo la tua mano sicura sotto la mia schiena e l’invito a lasciarmi andare, a rilassarmi. E grazie ha te ho raggiunto l’autonomia e la capacità di abbandonarmi con fiducia all’abbraccio dell’acqua, con la stessa sicurezza del feto che si muove nel liquido amniotico.
Nella vita è essenziale non sprofondare mai nei flutti del caotico divenire e cercare di emergere, assecondando le forze naturali.
Dove sei? Mi hai abbandonata proprio quando ero già pronta a sfrondarmi degli orpelli inutili e futili dell’orologio, a chinare il capo non per rassegnazione o vigliaccheria, ma perché davanti a me balenava la verità del nostro essere.
La tua espressione pensierosa, i tuoi silenzi, le lacrime che furtivamente asciugavi… Che ne sapevo, allora, che eri un’aquila e che, a poco a poco, la vita di aveva trasformato in un uccello prigioniero?
Ho bisogno di spiegarti tante cose che ora ho compreso. Le barriere del pudore e della reticenza sono ormai crollate sotto l’impeto di una nuova forza.
Sento il bisogno doloroso di farti comprendere quanto importante tu sia e sia stato per me, una necessità tanto più angosciosa quanto più mi rendo conto che non mi ascolterai. Ed ecco subentrare in me una rabbia sorda, che forse lenisce la sofferenza.
Credevo di poterla dominare stanotte, ma si fa strada nella mia mente insonne e comincia a muoversi lentamente, poi aumenta il ritmo della sua danza e assume le forme di una baccante sfrenata. Le tempie mi pulsano e mi sembra che il cervello sia martoriato dal rullare di mille tamburi. Finalmente riesco a ritrovare la calma, ma non è altro che una sterile freddezza che anestetizza le emozioni.
L’idea di sentirsi defraudati, traditi, abbandonati e ignorati è un efficace antidoto al veleno del rimpianto e della nostalgia. Non sei altro che un egoista, un uomo che ha dimenticato il suo passato e gode i piaceri di un’esistenza nuova, priva d’affanni e di problemi. Se fossi al tuo posto, mi arrampicherei sulle montagne più elevate e guaderei i fiumi più pericolosi, attraverserei i deserti più desolati e nuoterei nelle acque più tempestose per ritornare indietro dalle persone che ho amato.
Tu, invece, sembri aver dimenticato tutto oppure stai attuando una crudele vendetta nei miei confronti, servendoti di quel silenzio che spesso ho usato con te. Sai bene quanto ferisca la presenza assente e muta dell’altro, quanto uccida più di una parola sgarbata! Hai tratto forse spunto da quel Dante, i cui versi sempre mi citavi? In questo caso ti obietterei che stai usando in modo ingiusto la legge del contrapasso perché io tacevo, ma era lì con la mia fisicità: tu non taci semplicemente, tu non ci sei.
La pioggia scrosciante che adesso sento riversarsi sulla terra riuscirà probabilmente a calmare la furia del vento, così come sta placando il mio assurdo e insensato furore. Come un balsamo dolce, dona sollievo al dolore del mio animo e mi riporta alla razionalità.
L’oscurità della notte ha il potere di esacerbare i pensieri, rendendoli simili ad affilate fruste con le quali ci flagelliamo, come eremiti che cercano la santità attraverso l’implacabile punizione del proprio corpo.
Immaginare che tu in qualche modo voglia punirmi è soltanto un infantile espediente per tentare di trasformare il dolore in risentimento. La verità è una sola: non riesco ancora ad abituarmi alla tua lontananza e rimpiango tutto di te.
Mi piacerebbe vederti ancora alle prese con i passatemi ai quali ti dedicavi nel tempo libero. Quelle assurde e improbabili composizioni floreali! Eri convinto di avere il pollice verde e mai più potrò osservare le bizzarrie barocche di quelle piante annaffiavi scrupolosamente. N on sapevi cuocere neppure un uovo ma ogni anno, puntualmente, ti affannavi nella preparazione della marmellata di uva che riversavi in un’infinità di barattoli. Nessuno aveva il coraggio di assaggiarla, ma tu la consumavi regolarmente, più per puntiglio che per piacere: non avresti mai ceduto all’umiltà di riconoscere la tua goffaggine nel campo culinario! Se tu tornassi, però, ti assicuro che spalmerei volentieri su larghe fette di pane quella poltiglia che mai riusciva a raggiungere la giusta consistenza, e ti farei compagnia nel sacrificio.
Tutto questo e altro farei e non so come dirtelo. E’ inutile che venga a cercarti in quello strano posto in cui mi dicono tu abbia preso dimora. So benissimo che non sei là. Tu vivi altrove, non sei tu quello che resta in quel freddo loculo.
Aiutami a trovarti e ricordarti che ti voglio un bene infinito, papà.

Archeologia Post-Atomica

di Lorella Brescia di San Salvo (Chieti), Seconda Classificata

Un richiamo al bellissimo e coinvolgente romanzo di fantascienza Un Cantico per Leibowitz, di Walter Miller, è necessario e conseguente dopo aver letto Archeologia postatomica. Ma mentre nel Cantico la cosa misteriosa in cui l’uomo del futuro si imbatte è la parola fall-out, la velenosa nube radioattiva postatomica, trovata scritta in un rifugio atomico non si sa quando né da chi, in ogni caso prima che l’umana pazzia prendesse il sopravvento sulla ragione, in questo racconto, lungo appena una pagina che si legge tutta d’un fiato, la cosa misteriosa, il demone del momento che l’archeologia è riuscita a dissotterrare dalla notte dei tempi, è una sfera di cuoio, visto dallo studioso postatomico come un feticcio per esorcizzare il demonio, anzi per prendere a calci il demonio in uno spazio erboso chiamato stadio, stracolmo di gente irragionevolmente impazzita e urlante.
Anche qui, come il Miller del Cantico, l’Autore del nostro racconto fotografa il futuro in maniera che la grande planetaria sciagura che avrebbe colpito l’umanità, la c.d. grande guerra della quale sarebbe rimasto solo uno sbiadito ricordo, non abbia spazio nella mente dell’uomo che rimarrà dopo che il fall-out avrà spopolato gli stadi di tutto il mondo.

<< Professor Moroni sono venuto appena possibile, come mi ha chiesto. Lei ha accennato a una scoperta sensazionale, addirittura la scoperta del XXXV secolo! Non mi dica che ha finalmente svelato il segreto degli stadi, le grandi strutture a gradoni presenti anticamente in tutte le città d’Europa, ed in particolare nell’antica Italia? >>
<< Proprio così de Rossi mio Fido assistente. In tali luoghi si radunavano grandi masse di persone, talvolta fino a 80.000 ed oltre.>>
<<<80.000? Cioè tutta l’attuale popolazione dell’Italia riunita in un unico sito?>>
<< Per quanto incredibile possa sembrare, è proprio esatto mio caro. Tutta quella gente si riuniva periodicamente per celebrare un rito religioso atto alla collettiva esorcizzazione della paura del diavolo. La figura del maligno era rappresentato da una pelle di bue (non a caso animale cornuto) tagliato in piccoli pezzi poi cuciti tra lo loro in modo da ottenere una forma sferica. Quindi, sulla parte centrale dello stadio, che allora era ricoperta d’erba (tipico alimento del bue, in un’epoca in cui i vegetali erano così abbondanti da poterli sprecare dandoli in pasto alle bestie) scendevano in campo i sacerdoti, in numero superiore a venti, abbigliati con casacche vistosamente colorate. Aveva così inizio il rito che consisteva nel prendere a calci il simulacro.>>
<< A calci? Ne è sicuro professore?>>
<< Certo. Il demone colpito con violenza e tenuto continuamente in movimento non doveva così avere la possibilità di cibarsi. Nei sotterranei di uno di questi stadi è, di fatto, stata rinvenuta una curiosa calzatura, certo indossata dai sacerdoti, sotto la cui suola erano stati applicati degli spuntoni metallici, una sorta di tacchetti, che certo servivano ad infliggere maggiore sofferenza al diavolo. La simbologia si concludeva spingendo il simulacro in una sorta di gabbie aperte da un lato, poste agli estremi del campo. In tal modo la gente festeggiava il ritorno del maligno agli inferi esplodendo in grida di giubilo tipo GOL. >>
<>
<< Si, so che la parola può apparire strana, ma credo di poterla decifrare come una sigla: Godi Ora Lucifero. La parola godi era usata chiaramente in segno di scherno.>>
<< Stando così le cose, professore, appare chiaro anche il senso della striscia di tessuto, rinvenuta a Roma, recante un’iscrizione tradotta come ARBITRO CORNUTO. Evidentemente la parola ARBITRO nella lingua dei nostri antenati era uno dei tanti modi per indicare il maligno. >>
<< Ne sono certo mio buon de Rossi. Oltretutto nell’antica città di Milano, in un sottopassaggio dei gradoni, è stato rinvenuto anche un grande foglio di carta sorretto da bastoni di legno, miracolosamente intatto dopo la grande guerra, nonostante la deteriorabilità dei materiali; esso era dipinto a righe rosse e nere e raffigura nel suo centro proprio una figura di demone con tanto di corna e forcone.>>
<< Professore, lei ha ragione come sempre. Ma mi permetta un’obiezione: nella città di Firenze è stato recentemente scoperto, sotto uno spesso strato di ceneri contaminate accumulate i9n fondo ad una gradinata esposta al vento, un grande telo, una sorta di bandiera, su cui capeggia un fiore viola dai vistosi petali. Si tratta cero di una specie botanica oggi scomparsa, ma, ecco, non credo che una figura del genere possa riferirsi al maligno.>>
<< Mio ingenuo assistente! Tu dici PETALI? Io dico CORNA. Tu dici FIORE? Io dico LUCIFERO! >>
<>
<< Però? >>
<< Lei parla di un rito religioso. Ma se quel tirare calci alla sfera di pelle fosse stato solo un gioco? >>
<< Non dire idiozie de Rossi>>

I Dolci

di Pizzo Antonella Ragusa, Prima Classificata

Un acquerello intimistico che sembra disegnato da Giuseppe Marotta, il quale ci porta per mano, passo dopo passo, attraverso indimenticabili itinerari urbani, verso una dimensione umana ai più sconosciuta ma in effetti reale e incombente nella vita di ciascuno di noi. Un racconto breve e pure tanto lungo da poter contenere innumerevoli flash di intensa luce etnologica, e ancora affetti, amori, sorrisi e pianti, una infinità di sentimenti, così come li abbiamo letti anche nel conterraneo Verga… una via di Sicilia insomma, anzi un ronco, esso stesso personaggio, che porta ad una casa dove una donna attende giorno dopo giorno il ritorno dell’uomo amato; una delicata storia raccontata con estrema semplicità e pudore, personificata attraverso il toccante colloquio che si svolge tra una madre, che non accetta la morte del marito avvenuta tanti anni prima, e la figlia la quale tuttavia accetta come naturale questa vita parallela vissuta dalla madre.
Quello era un piccolo paese e ce n’erano tanti. Li chiamano ronchi e sono strade cupe senza via d’uscita. In genere sono stretti e piccoli, spesso bui. Il sole, anche se di mezzogiorno, non riesce a penetrarvi. A volte qualche raggio più intraprendente si contorce e si allunga e riesce a lambire appena appena le pareti grigie delle case, infine stremato dallo sforzo lascia andare la presa. I basamenti sono fatti con lisci ciottoli che nelle stagioni fredde si velano di umidità, diventando viscidi e sdrucciolevoli, allora occorre aggrapparsi forte ai muri scrostati per non scivolare. Ce n’era uno che si chiama Rupe Tarpa e moriva in un precipizio delimitato da un basso muro. Affacciarsi da lì era un’emozione. La vista della magnificenza della vallata sottostante e di fronte i profilo deciso delle montagne confondeva i pensieri. Non tutti i ronchi erano belli come quello. Ai lati piccole rampe di scale, a ogni scalino vasi di geranio e di citronella, o ancora, gelsomino. Non mancava mai un vaso con il basilico o il prezzemolo, più o meno rigoglioso, a seconda delle stagioni. Scale esterne con passamani in ferro battuto o in muratura portavano in piccoli terrazzini fioriti. Le case, che viste da fuori si immaginavano piccole e umide, all’interno, grazie ai loro grossi muri che le proteggevano sia dal freddo che dall’afa, erano calde e accoglienti in inverno e fresche in estate.
Anna viveva in città ma da piccola aveva vissuto in una di quelle case. Al numero sette del Ronco Rupe Tarpa, invece, abitava da sempre Ida e Anna quel giorno andò a trovarla.
Quando Anna arrivò, trovò Ida che trafficava ancora in cucina. L’odore della cannella, che aveva versato a profusione sulle cassatine di ricotta che stava preparando, si mescolava agli odori delle erbe aromatiche che coltivava nel suo terrazzino, formando uno strano bouquet.
- Che bello! – disse abbracciandola,- hai preparato le cassatine che mi piacciono tanto… e che buon’odore di cannella, è così penetrante che fa girare la testa.
- Oh, si, - rispose Ida ricambiando con affetto l’abbraccio, - ma non ho preparato solo questo, ho cucinato tante altre cose. Guarda che meraviglia! – e prendendole la mano la portò in soggiorno e le mostrò vassoi pieni di bignet al cioccolato e di cannoli di crema gialla.
- Quanta roba, ma aspetti qualcun altro oltre me?! –
- Si, aspetto Giacomo, gli hanno dato una licenza premio. Mi ha scritto dal fronte che arriverà oggi. –
- Dal fronte? Giacomo? Ma quale Giacomo… sei sicura di stare bene?! –
Ida si allargò in un sorriso e i suoi occhi si illuminarono.
- Che dici, scherzi! Mai stata meglio in vita mia. Giacomo è il figlio di Massà Giuseppe, ricordi?! Il padre aveva il podere accanto alla nostra vecchia casa di Contrada Bellona. Ma lui non fa il massaro come suo padre. Si è arruolato nell’esercito e ha fatto carriera. Ha scritto ai miei genitori chiedendo la mia mano. – Ida parlava senza fermarsi, e intanto si sistemava i capelli e si lisciava con le mani il vestito. Il suo vestito era nero e neri i suoi occhi come pezzi di carbone, ma la sua pelle era bianca e i suoi lineamenti dolci.
- Se ti fa piacere, se vuoi, - riprese dopo una breve pausa, - puoi restare. Verranno tante persone oggi. Abbiamo invitato anche la Lisa con il marito, e anche la cugina Antonia con tutta la sua famiglia, te la ricordi la cugina Antonia? – Anna non rispose, così Ida continuò a raccontare.
- Fra la cugina Antonia e i miei genitori in passato non è corso buon sangue, sai.. hanno bisticciato a causa dell’eredità dello zio Vanni, ma alla fine si sono accordati. Ora, però, è da tanto che non li vediamo e questa ci è sembrata l’occasione giusta per fare una pace definitiva e scordare tutti gli antichi rancori.
- No, non posso, non posso restare, - rispose finalmente Anna, cercando con attenzione di trovare le parole adatte per non ferirla ,- lo farei volentieri, ma tu sai che per venirti a trovare ho lasciato i bambini in città dalla mia amica Sandra.
- Ma potresti andare a prenderli i tuoi bambini, la casa è grande e c’è posto per tutti, e io li vedrò con piacere, è tanto che non me li porti. Ti prego sarei contenta se anche tu e la tua famiglia partecipaste alla festa del mio fidanzamento.
- Va bene, andrò a prendere i bambini. – Anna aprì la porta e uscì nel terrazzino e stancamente discese gli scalini. Ronco Rupe Tarpea. Ah, lo conosceva bene il ronco, aveva passato tanti pomeriggi seduta negli scalini a studiare il percorso delle formichine. Si rivide bambina correre per quella stradina e poi affacciarsi dal muretto a guardare, sotto, quel mondo sconosciuto fatto di alberi inerpicati nella roccia, e cespugli di felce rigogliose… e risentì l’odore del finocchietto selvatico. Si affacciò anche quella volta a guardare gli alberi d’oleandro dai fiori rossi e bianchi e gli ammassi di rovi fioriti e le more che sempre raccoglieva in Agosto facendo attenzione a non graffiarsi e a non macchiarsi gli abiti. Grosse more nere, dolci e succose.
Restò affacciata per un tempo indefinito, fino a quando quel sentimento di nostalgia che sempre provava quando tornava in quel ronco si trasformò in lacrime lente e calde e per questo confortanti. Prese un fazzoletto e asciugò i suoi occhi. Non aveva scelta, era necessario farlo. Avrebbe telefonato ad Andrea, suo marito, sarebbe passata a prendere i bambini e sarebbe ritornata.
- Pronto Andrea, ciao sono Anna, sto andando a prendere i bambini e sto ritornando da lei.. peggiora ogni giorni di più. Non posso lasciarla sola.
- Così Anna fece ritorno nella Casa di Ronco Rupe Tarpa. Entrò in soggiorno e seduta sul vecchio e liso divano di velluto bordeaux, trovò Ida che singhiozzava. Lei non si curava neanche di asciugare le sue lacrime, né di nascondere le smorfie che il suo vecchio viso faceva. Le lacrime scendevano piano dalle gote avvizzite e snervate, e bagnavano il colletto del suo abito nero di lutto. Piangendo ripeteva, con il medesimo tono, le stesse parole.
- Giacomo non è venuto, gli avevo preparato i dolci che gli piacevano, ma non è arrivato. E ora di questi dolci che ne faccio? Anna si sedette accanto a lei e la abbracciò con tenerezza.
- Non piangere, non piangere fai piangere anche me. Non vedi che i bambini ti guardano. Si preoccupano nel vedere piangere la loro nonna. Vedrai che tornerà domani, avrà avuto un contrattempo. Stai calma, li mangeranno i bambini i tuoi dolci, e poi ne farai degli altri.
Ida sorrise.
Sul tavolino del salotto buono una grande cornice d’argento e la foto scolorita di un soldato: Cielo del Mediterraneo giugno 1942 – XX Tenente Giacomo Lantieri – Medaglia di bronzo. Anna la guardò e con la mano accarezzò paino quella foto.

Quando sarò per strada

di Luciana Tedeschi Perugia, Terzo Classificato

Venti versi, brevi, incisivi, per raccontare l’attesa. Di chi, di cosa? Non importa. Un attimo che può durare una eternità, un salto per raggiungere l’altra sponda che sappiamo che c’è, che stiamo per raggiungere ma che ancora non riusciamo a vedere. Anzia, labbra riarse, respiro affannoso un attimo prima di vedere Lei, e poi… Poi? L’incontro, l’anima che annega negli occhi della persona amata, che il Poeta non nomina perché non è necessario che essa abbia un nome. Da Lei, dall’eterno femminino, la cui essenza, la cui fragranza fa scoppiare il cuore, inizia l’eternità.

Quando sarò per strada
un attimo prima di vederti
di sicuro
nel mio cuore
scoppierà una bomba.
E col respiro affannoso
le labbra riarse
mentre un brivido
attraverserà la mia pelle
ti verrò vicino.
Quando sarò per strada
e t’incontrerò
di sicuro
la mia anima
per l’uso scivolerà dentro i tuoi occhi.
Di sicuro
mi sazierò di te.
Intanto
il tempo
mi sembra eternità.

Anemici orizzonti

di Francesco Albanese di S. Egidio del Monte Albino (SA), Secondo Classificato

Anche in questa breve composizione, l’attore principale è la vita, questo fatale avanzare senza ritorno, questo racconto lungo cento anni, intercalato da inquietudini, smarrimenti, singhiozzi, desiderio di irraggiungibili anemici sbiaditi orizzonti. Qui il poeta non rinnega la sua fragilità umana; notiamo che traspira da ogni verso, da ogni parola, l’incertezza della vita, la vita che abbiamo preso a prestito, ci dice il Poeta, e che comunque deve essere vissuta, pur tra lacrime e sorrisi, lungo un indefinibile ed indecifrabile arco di tempo iniziato nel preciso momento in cui abbiamo lasciato in fretta dalla bocca il seno, come ci racconta l’Autore.

Abbiamo preso in prestito
la vita per sciogliere aquiloni
tra lacrime e sorrisi,
in fretta abbiamo lasciato
dalla bocca il seno,
voglia di crescere in frutti rapinosi.
Sepolcri d’aria vagano nell’io,
note vibrano pensieri,
come acqua bevuta per sete
di anemici orizzonti.
Il buio canta nel silenzio
sdraiato su una nuvola di niente,
corrono sillabe dentro la parola
che un alito di vento fa cadere.
Piccoli singhiozzi destinati a crescere
smarriti nei rimpianti macinano illusioni,
rubate ai margini del tempo,
nell’attesa che tutto ricongiunga.
Pazza stazione la vita,
eterna inquietudine dell’uomo,
fatale avanzare senza ritorno.

Errando per giungere ovunque

di Moretto Graziano di Anversa (Belgio), Primo Classificato

Desta meraviglia che il secolo che stiamo faticosamente vivendo, il secolo in cui l’unico antidoto all’incertezza dilagante sembra l’Apparire, non importa come, ma solo Apparire, anche a scapito della propria dignità, il secolo in cui l’Essere non è argomento trattato neanche dagli psicologi tanto è fuori moda, ci sia chi, come l’Autore di questa breve ma intensa poesia, non a caso senza titolo, si vesta del suo Essere, che è la sua vera umana armatura e vada errando per giungere ovunque, così recita il primo verso, alla ricerca delle sensazioni più straordinarie, sia essa la fragranza di un ricordo che la ricerca di tutte le fragilità della vita, rivolgendosi in questa ricerca proprio alla vita, la quale, come scrisse Conan Doyle, è sempre infinitamente più originale di qualsiasi volo di fantasia.

Errando per giungere ovunque
un cenno appena scandito risuona
svanisce
ed è ancora in me
cheto
forse è l’avanzo di un ricordo che vive e muore
ma sopravvive nella tua fragranza
e inseguo ogni fragilità
-per trovare i tuoi uguali solo nell’incorporeo-
riesumo altri segni tra il pulsare delle giornate irreali
è un messaggio che per ritrovare dovrò perdere:
un gesto inconsistente,
forse è il tuo candore disperso
tra spire sottili nel tempo