16/11/04

Il cammino semplice

di Talio Mario Giorgio Caltanissetta, Menzione speciale

Un uomo giunto alla maturità, si volta a guardare al proprio passato, agli attimi d’amore vissuti in maniera così intensa da sembrare eterni, all’impegno per la pace ed ai compromessi per i quali ha messo da parte l’orgoglio. Eppure oggi tutto questo gli appare come un “cammino semplice”, del quale rimane ancora qualche dolorosa fitta e qualche segreto nascosto da dimenticare. Il futuro appare come il momento della calma e del perdono, del cammino lento che condurrà all’approdo.
Viene rappresentato il momento del passaggio dai “furori giovanili” alla quiete riflessiva della maturità ed averlo espresso attraverso sottili, efficaci metafore.

Ho speso attimi d’eternità,
germogli d’amore,
aliti tiepidi e brezze marine
e su questa pelle
respiro ancora aromi di scirocco,
antiche spezie d’oriente.
Quante volte questi piedi
tacciarono sentieri di pace
o chiesero licenza
per valicare dirupi d’orgoglio.
Oggi, di quel cammino semplice
m restano ortiche e roveti
a pungere ricordi lontani,
a spegnere silenti segreti.
Se guardo avanti, tra gli abeti,
profumo di perdono scorre chiaro
all’ombra sottile dei ciclamini;
e m’abbevèro, stanco di cercare, nel cammino,
il mio approdo

Il mare è mosso

di Turba Vincenzo Rota d’Imagna (BS), Menzione speciale

Il problema dell’emigrazione clandestina esplode in tutta la sua drammaticità nel racconto di una pericolosa traversata. Ma la massa di diseredati diventa a sua volta un’onda pronta a travolgere la vita dei privilegiati, a cui in chiusura viene riservato un monito.
Viene rappresentato in maniera toccante la disperazione dell’uomo che soffre e che è pronto a rompere gli argini del privilegio.

Lo specchio del mare
s’è increspato.
Milioni di anime inquiete,
truffate, spregiate, derise
sommerse da uno squallore donato
iniziano a smuovere
la bonaccia delle onde.
Alti e possenti marosi
sferzano e annacquano già
la nave ammiraglia del privilegio.
Scrutato l’orizzonte, il saggio veggente
Medita.
Se l’urlo degli offesi non sarà udito,
le onde si alzeranno decise,
si ingrosseranno, romperanno
le scogliere, gli argini,
ed un’onda maestosa inghiottirà
i paladini dell’egoismo,
padri e figli!

I Venditori Ambulanti

di Romano Salvatore, Primo Classificato

Parpignol. Parpignol ! Parpignol !...
Ecco Parpignol! Parpignol!
Col carretto tutto fior!
Ecco Parpignol!
(G. Puccini – la Bohème – atto secondo)

Un vecchio cappellaccio di paglia sfilacciato si lasciava trascinare nei suoi generosi buchi dalle lunghe orecchie penose di un asino così vecchio da sembrare che avesse cent’anni, ma così forte da riuscire a tirarsi dietro, passo passo come un condannato rassegnato, il vecchio carramatto carico di mercanzie che il suo anziano padrone giornalmente gli attaccava.
Quando, sotto il primo sole del mattino, Baldassarre passava per quel tratto di strada prospiciente il mare, la siluetta di quell’insieme in movimento governato dal sonnacchioso cocchiere era inconfondibile. La controluce, infatti, lo faceva apparire sullo sfondo del mare argentato di un solo colore scuro, come un ‘ombra cinese con due grandi occhi color verde smeraldo creati dalla trasparenza di due enormi damigiane lì sopra trasportate.
A quell’immagine si aggiungevano lo zoccolio lento del quadrupede, il rumore delle ruote giranti sull’asfalto gia caldo, il suono dei superstiti cincianeddi rimaste cucite alla logora bardatura e in ultimo l’inconfondivbile voce arrochita di Baldassarre, che gridava <<>>, la liscivia, la liquida soluzione biancante necessaria per candeggiare il bucato che le donne compravano al minuto.
Alla “sinfonia” dell’ombreggiato carramatto s’aggiungevano i latrati stizziti di Fumo Nero, un meticcio dal pelo color carbone che usava dormire al sole, straiato sulla pancia davanti la porta delle anziane signorine Nidduzza e Mariuzza.
Tonde depositarie le panciute damigiane smeraldine, contenenti la liscivia che lo stesso Baldassare preparava e vendeva per poche lire al litro, troneggiavano su quel carramatto nella loro maestà fianco a fianco. E dico troneggiavano, perche la canapa protettiva che le rivestiva, intrecciata a maglia a mò delle cotte d’arme degli antichi guerrieri medievali, e i grossi tappi di sughero dal taglio svasato, infilati nelle loro bocche, le trasformavano in una coppia d’ austeri regnanti in trono.
Ricordo quando da bambino con la bottiglia in mano m’avvicinavo a quella siluetta per comprare la liscivia alla mamma, e com’essa di colpo esplodeva nei suoi veri colori, nell’immagine allora per me ancora inconsueta ma oggi affine del Parpignol de La Bohème pucciniana, rivelandomi la moltitudine degli umili sudditi, fatta di piccole mercanzie prostrate ai piedi delle grosse e verdi maestà. Erano saponi di Marsiglia, scope di paglia, stracci, pacchetti di detersivo in polvere Miralanza con dentro le figurine dei punti che portavano stampato Calimero o l’allegre e irreali casalinghe dal sorriso stereotipato intende a stendere la candida biancheria. E ancora grigie matasse di paglietta metallica per lucidare le pentole, mollette per la biancheria, manici di scopa, frettazzi, spugne, pezzi di sapone artigianale preparato con la soda caustica amalgamato nell’olio di oliva vecchio, i coloratissimi secchi e bacinelle modellati nel moplèn che segnavano i primordi della civiltà della plastica e tanta altra roba per le pulizie domestiche.
Baldassarre nel suo girare quotidiano per le vie e i vicoli del paese era sempre inseguito da noi bambini, che giocavamo ad appenderci al suo carramatto. Gioco che invece non era possibile fare col carramatto di don Carmelo detto u Carbunaru. Anche questi si lasciava trainare da un vecchio asino dal pelame nero, ma gridando <>. E dato che vendeva carbone di legna, appendersi al suo veicolo per noi bambini era veramente rischioso poiché la polvere nera di quel mercimonio, che,ardendo nelle fornacelle degli acquirenti, avrebbe restituito la luce e il calore necessari per arrostire succulente pietanze, ma lì, in quel gioco, ti cambiava il colore della pelle e dei vestiti. Tranne che, una volta rientrati a casa, non si era disposti a farsi battere la fuliggine di dosso dalle mani delle nostre mamme, le quali non avevano niente in comune con le fiabesche casalinghe delle figurine Miralanza.
A volte giocando penzolanti dal carramatto di Baldassarre, capitava di incrociare u ricuttaru, e allora volentieri saltavamo giù per avvicinarsi a lui. Il baffuto venditore per poter raggiungere il nostro paese con il latticino ancora caldo, aveva armato con un gran contenitore cubico in legno il portapacchi posteriore della mitica motocicletta rossa Motom. Container che ogni mattina colmava di cavagne grondandi ancora il tiepido siero giallastro del latte, sistemandole tutte accucciate, testa e coda, a solari, alla maniera di quando si salano le acciughe nel barilotto; trovando in un cantuccio anche lo spazio per alcune fiscelle di giunco colme fino all’orlo di quell’ottima ricotta di latte di pecora.
Mentre il ricottaro era intento a fare scivolare il molle e fumante ripieno delle cavagne nei piatti tenuti in mano dalle donne, noi bambini infilavamo l’indice negli astucci di canna, che di volta in volta svuotava e appendeva per il pendutolo di raffia all’uncino rugginoso attaccato fuori il cubo, per rastrellarvi i residui grumetti di ricotta rimasti attaccati e buoni da leccare.
Soltanto cento liberatorie lire mi affrancavano da quel gioco, permettendomi di comprarne una piena tutta per me che mi deliziavo a sorbire come fosse una bibita , mettendo in festa il mio palato che con indicibile piacere pasteggiava e assaporava il gusto del latte di pecora, insaporito da quella leggera punta di fumo provocato dalla legna consumata dal fuoco che la mattina presto alla mànnira aveva scaldato la quarara. Infine, dopo averla svuotata, appagato appendevo la lavagna all’uncino, ma non prima di averci guardato dentro ed essermi assicurato d’ averla nettata a dovere.
Quando al ricottaro non s’avvicinava più nessun cliente, egli dava l’ultimo richiamo, un colpo secco di pedale del motore e, togliendo il cavalletto, montava in sella, e ritornava a gravare con l’intero negozio sulle sommesse ruote della Motom.
Rivedo ancora oggi quell’uomo baffuto montare in arcione alla Motom e puntare con le gambe divaricate i piedi a terra, riassettarsi la coppola dalla visiera unta, e dare il mezzo giro alla manopola dell’acceleratore facendo scoppiettare il motore, che nonostante il peso di quel negozio e del suo negoziante, lasciandosi dietro una nuvola di fumo, riesce ugualmente a dare l’abbrivio a quel corpo unico, facendolo scivolare verso un’altra cantoniera, verso una nuova sosta dove bandire il prelibato latticino gridando <>
Di pomeriggio passava invece a lapa del pizzicagnolo che vendeva il formaggio detto primu Sali, il cacio ragusano e il pecorino stagionato ancora trasudante gli umori oliati e speziati dal pepe nero, che lì sicuramente sapevano di tanfo, ma a tavola erano tanto odorosi.
A tutte le donne che compravano, lui concedeva prima un assaggio, porgendo con garbo un pezzettino di formaggio infilzato nella punta del gran coltello. E se per lui quello era un buon metodo per favorire la vendita, per noi bambini che ci avvicinavamo nostre mamme intente a mercanteggiare, era un frugalissimo, piccante spuntino, ma dopo che esse l’avevano assaggiato per prime con un morsetto dato sulla punta dei denti.
C’era anche don Peppino Pinto, il fornaio che portava a domicilio il suo pane cifrato con una “P”, e che, per accertarsi della bontà delle cinquecento lire d’argento, le faceva tintinnare sulla limita, del marciapiede, dimostrando come avesse ben istruito l’orecchio nel distinguere le monete false dalle buone.
C’erano Salvatore, Torretta e Ferraguto, che pedalavano in sella alle loro chimere per metà prore di barca e per metà tricicli. Esse verniciate di bianco e bordate d’azzurro, sulle murate avevano dipinto in elegante corsivo la scritta “Gelati”, mentre nel cuore ghiacciato del loro fasciame trasportavano granite al gusto di limone, mandorla e cacao.
I gilatari, sin dalle prime ore del mattino si annunciavano con un caratteristico sibilo acuto e intermittente del fischietto, a cui seguiva il grido <<>. E il loro passaggio non poteva che essere l’arrivo del fresco companatico per la particolare colazione estiva dei paesani fatta, per l’appunto, di pane e granita.
Una volta al mese passava u Ciuriddiano, il venditore d’olio d’oliva così chiamato perché proveniente da Floridia. Egli vendeva l’olio sfuso al minuto, misurandolo col cafiso, l’antica unità di misura a forma di anfora con il caratteristico foro nel collo che indicava il pieno.
Passava per le vie anche l’indimenticabile venditore da Citrata i Morica, dolce realizzato con zucchero e scorza di cedro. L’omone, con la coppola dall’aspetto piacevole, indossava sempre sopra una candida camicia il gilè nero. Spingendo a braccia il carrettino, squarciava il silenzio del primo pomeriggio con la sua possente voce tenorile, magistralmente usata per bandire la cedrata. Egli è stato l’unico venditore ambulante forestiero, ad avere riconoscenza della benevola fiducia dei suoi clienti del mio paese. Riconoscenza per oltre cinquant’anni d’interrotta attività, manifestata per sua volontà dal figlio sui manifesti listati a lutto che annunciarono alla città la sua dipartita. Mesta notizia che procurò a molti la sincera commozione, oltre il risentire l’eco del suo grido dal registro acuto ed esteso che diceva <<>>.
C’era, ancora una volta, l’amico di Prometeo, don Carmelo il carbonaro, che nelle sere d’autunno, all’angolo della villa comunale, diventava venditore di caldarroste. Lo rivedo mentre apre la presa d’aria do caliaturi per ridare vigore ai carboni ardenti, poi gettare dentro il cestello pieno di castagne il pugno di sale che le fa scoppiettare tra una miriade di faville che si proiettano impazzite nell’aria con l’odoroso fumo, facendo apparire quell’arnese come un vulcano, lo stesso Etna dai cui boschi provenivano quei buonissimi marroni. Risento l’odore gradevole del fumo che avvolge il vicino quartiere e gli stessi viali della villa, preludio delle prime caldarroste già pronte, vendute dentro un cono di carta strappata da un mucchio di vecchi fotoromanzi Grand Hotel, quelli con le copertine disegnata da Walter Molino.
Rammento che, puntualmente tutte le sere sotto la gradinata del Cinema Kursaal, sostava un carrettino illuminato da una piccola lampara da pesca alimentata a gas, dove si vendevano lupini, semi di zucca salti, noccioline americane, ceci e fave abbrustoliti. Il luppinaro pesava la merce sulla bilancetta appesa ad una struttura di legno dotata di cassettino, dove apparivano ormai sbiaditi i motivi ornamentali presi dal carretto siciliano e un fiocco rosso scolorito, da cui penzolava il caratteristico amuleto a forma di corno, elemento indispensabile per tenere lontano le forze malefiche e pericolose sprigionate dai possibili occhi rassi e mmiriusi.
Per le strade capitava d’incontrare anche chiddu do ferru vecchiu, che per poche lire acquistava qualsiasi cosa fatta di metallo prediligendo però quelle di rame. Oppure u siggiaru, che girava con gli arnesi sistemati nel tascapane portato a bandoliera, e lavorava davanti le porte riparando le maglie di giunco dei sedili di qualche Thonet d’epoca o sostituendoli completamente con dei nuovi di compensato stampato, certamente più sbrigativo ed economico. E ancora u mmola forbici e cutedda, l’arrotino anche lui con la Motom rossa, con la grossa pietra mola fissata sul portapacchi posteriore e collegata per mezzo di una cinghia alla ruota motrice.
In fine all’angolo della Cruci tri cannoni ebbi la fortuna di vedere, appena due volte, in quella veste la figura a me più cara, l’uomo calzato di stivali, con i pantaloni chiazzati dal sale dell’acqua di mare. Accanto a lui, posati a terra due secchi colmi di polpi pescati nella notte e la bilancia con i piatti di rame. Quel pescivendolo di giorno ma pescatore di notte, era mio padre.
Io tenuto per mano dalla mamma, guardando dentro quei secchi rivedo il tentacolo di un polpo, rimasto attaccato per le ventose alla parete del secchio, nel suo ultimo tentativo di fuga. Osservo, anche una seppia ancora semiviva concedersi il suo ultimo dispetto. Come se essa fosse a conoscenza della sua sorte, repentinamente, per l’ultima volta, cambia i suoi mimetici colori e sbruffando il suo prezioso liquido nero, proprio davanti all’acquirente ad essa interessato, svaluta il suo prezzo. Rivivo quel rari incontro con mio padre che manifesta il suo affetto dandomi un bacio e una carezza, e riservare alla mamma una buona parola. E lei. Tenendomi stretto per mano, guardando con discrezione dentro i secchi, saluta con un semplice: <>. Mentre io con forza, opponendomi alla sua presa, le chiedo con insistenza, e coll’inutile aiuto di qualche lacrima, di lasciarmi con lui.

Sconosciuta

di Angela Prandi Gargallo di Carpi (Mo), Premio Speciale ACM

Una storia senza tempo, intrisa di una dimensione fantastica, dove si assiste alla nascita del cielo e del mare amanti felici che si ritrovano divisi e condannati solo a sfiorarsi per l’eternità.

La vidi laggiù, sulla battigia, accasciata come un pallone sgonfio abbandonato da un bimbo, trascurata dai suoi pensieri, volati via per la noia o per un irresistibile richiamo. Era bella ed inquietante, caparbia nella sua immobilità, inevitabile punto di fuga a cui si volgevano la sabbia densa e mite, il mare impaziente e cupo e la schiuma del mio cuore incauto. Procedevo rallegrato dalla mia curiosità verso quella laboriosa ed esclusiva presenza; seguivo il mio sguardo, sempre avanti ai miei passi, che mi prendeva la mano e mi portava laggiù . Arrivai da lei. Quella strana creatura mossa dall’inbrunita brezza del crepuscolo volse lieve il capo per mostrarmi un sorriso appena schizzato sul suo volto, abbronzato e quieto. Non provai alcun imbarazzo per quella silenziosa vicinanza, possibile solo a due vecchi amanti o a due bimbi: Nessuno di noi due calpestava l’ombra dell’altro o aveva bisogno dello spazio circostante per proteggersi. Il vento muoveva la superficie dell’acqua, ridacchiava tra le onde e sollevava i suoi capelli, illuso forse di poterli avere tutti per sé.
- Sai qual è l’origine del mare? – disse la sconosciuta della spiaggia.
La guardai, le sorrisi e scossi il capo. Avevo la sensazione d’essere davanti ad un angelo, uno di quelli fuggiti via dal cielo, forse perché scandalizzato dall’imperio degli dei. Non parlai per non impaurire la preda del mio stupore. E lei così riprese:
- Se hai pazienza te la racconto io. –
Mi lascia cadere a terra con le mani incrociate sotto la nuca per sollevare il capo e poterla vedere dipinta sul mare. Fruscianti i lembi del mio desiderio, sprovveduto ed intenso, cadevano dagli angoli dei miei occhi, dalle pieghe delle mie mani sulla sabbia fresca, in attesa d’essere bagnati da un’onda del mare, più libero e sicuro, di notte.
La sconosciuta mi volse la schiena per andare con il pensiero oltre il contorno delle nuvole, per andare con il cuore oltre la superficie chiara e trasparente del mare, per andare con le sue parole oltre le mie difese.
Cominciò a raccontare.
- Tanto tempo fa, in un tempo che non si sa dove sia finito, il mondo che noi abitiamo era una monade d’acqua e aria, una bolla attraversata da folate di vento e onde liquide che s’intrecciavano, in un armonia di consensi e intriganti segreti. L’amore naturale tra l’acqua e il vento tesseva un arabesco di colori e un’eco di suoni, stesi al centro dell’universo che racchiudeva orgoglioso e l’ingenuo tesoro di delizie. Per fortuna le parole aspettarono il corso dei pensieri e la voce di lei riapparve – una splendida trottola roteava mossa dalla forza del suo candore, incurante della grande dea, che governava tutto. E fu lei, divinità superba e crudele la causa della fine di quel mondo che diede vita a questo. La dea, infatti, invidiosa della precarietà spudorata di quella trottola d’acqua e aria che sfacciata mostrava la sua felicità piena d’abbracci semplici e suoni lieti, s’infuriò e con la rabbia cieca di chi si sente messo da parte separò l’acqua dal vento, spezzò in due quella splendida creatura, smarrita dalla forza delle sue metamorfosi, come dall’odio della divinità. Nacque il cielo, ad ospitare il vento striato di gemiti e caldi sospiri; nacque la terra, dal suolo rigido e ostile come il volto misterioso della dea che segregò l’acqua in una culla di prigionia per tenerla divisa dall’aria, suo amato bene. Nacque in altre parole il mare, acqua sapida di lacrime per la perdita subita, che da allora contempla il cielo e come uno specchio fedele e sensibile ne imita le tonalità di blu sempre nuove di cui si colora.-
La fanciulla improvvisamente tacque per voltarsi a scrutarmi. Riprese.
- Il mare è un prigioniero a vita. Scuote, sbatte, impreca, urla il suo desiderio ferito, o forse tradito. Una rabbia antica lo muove, una notturna delusione lo acquieta. – Mi sdraiai a terra, con le mani sotto il mento.
Mi sentivo in pericolo senza sapere bene il perché.
- Vuoi sentire la forza dell’amore e dell’odio racchiusa in questa leggenda? Vuoi sentirla o ne hai paura? –
Il suo volto era mosso dall’emozione. Assentii a quella fascinosa minaccia e con un sorriso rassicurai me stesso.
- Quando il languore riempiesi sbuffi e folate il cielo, discende il vento, che muove in molteplici onde l’acqua che riesce ad accarezzare; a volte però s’accanisce risentito sulla terra, là dove affiora, in un isola o sulla costa, attorcigliandosi come fosse una trottola che ruota e distrugge. La terra, cicatrice rugosa di un’invidia eterna, trema e lambisce un lamento. Ma la vile intrusione della dea non è riuscita a mettere fine alla dedizione del vento per l’acqua, dedizione che, cieca nella sua determinazione, si erge sulla rassegnazione. –
La sconosciuta s’interruppe per alzarsi in piedi. Io rimasi in silenzio a guardare lei e una vela d’una piccola barca. Quelle parole s’erano fatte padrone di me: “ la dedizione, cieca nella sua determinazione, si erge sulla rassegnazione”. I passi regolari annunciarono un suono sordo La sconosciuta lasciò cadere sulla sabbia una corda di cuoio intrecciato, cui erano legate tre conchiglie, ricamate come le ali d’una libellula. Mi chinai per raccogliere il dono sul quale trovai incise tre parole: ribellione, sogno, realtà. E laggiù il mare. Ribellione, sogno, realtà. E la corda che li teneva si opponeva alla separazione. Sollevai lo sguardo per vedere la sagoma nera dondolarsi sulla battigia. Forse avevo capito qualcosa, qualcosa del mare, qualcosa del vento e qualcosa di me. La notte incalzava, il mare era nero, il cielo blu cobalto e la luna prediletta sussurrava una piccola luce. Tanto valeva fare ritorno, con il cuore graffiato da quel racconto e da quel ritratto

Kamikaze

di Brescia Lorella San Salvo (Ch), Terza Classificata

Una giovane mediorientale sembra piegarsi alla logica della vendetta terroristica della propria comunità, che la spinge ad immolarsi in un attentato dinamitardo. L’incontro con un anziano medico italiano, con il quale si confida e che vorrebbe portarla con sé in Italia, le dà il coraggio di ribellarsi e di uscire dalla spirale della violenza.
Viene raccontato quanto un gesto di generosità possa liberare dalla morsa della violenza e possa ridare fiducia e autostima, generando un forte senso di attaccamento alla vita

Mentre Parisotti le fasciava la caviglia la ragazza si decise a parlare.
<< Questa è l’ultima volta che ci vediamo dottore. >>
<< Ma no. Tornerò in Italia solo fra dieci giorni. E poi ti ripeto la mia proposta: vieni con me. Non sono ricchissimo, ma un lavoro te lo troverò facilmente: nella clinica dove ho deciso di trascorrere i miei ultimi anni di attività, nella pizzeria di mio fratello, o nel negozio di mia figlia. Per il permesso di soggiorno non ti preoccupare, una soluzione la troveremo, sono disposto ad adottarti se occorre. Credimi, sei sprecata qui. E in questi giorni dovrai comunque tornare a medicarti, c’è ancora il rischio di infezione, è un miracolo che tu non abbia perso la gamba, la scheggia ha toccato l’osso.>>
<>
Il medico la guardò con tenerezza: uno scricciolo di soli 19 anni.
<>
<< Mio cugino aspetta qui fuori. E io andrò, perché questo è il mio destino; non mi hai detto proprio tu che nella tua lingua il mio nome significa cadavere?>>
Parisotti si frugò nelle tasche e tirò fuori qualcosa.
<< Tieni – disse – questi sono 20 dollari. Non ho altro adesso Comprati un vestito colorato, alla occidentale, scopri i tuoi capelli, confonditi fra gli ebrei, e appena puoi torna qui, ti proteggerò fino alla nostra partenza.>>
Alle otto di mattina Parisotti, seduto su una panca, faticava a tenere gli occhi aperti su una cartella clinica. Poco più in là due infermiere chiacchieravano sorseggiando caffé.
<< Povero Parisotti – commentò una –ha operato tutta la notte, poi alle cinque è arrivato quel bambino: un braccio da amputare, trauma toracico e la faccia a brandelli. Sopravviverà, ma in che condizioni povero piccolo? Maledetti bastardi!>>
<< A proposito – esordì l’altra – Sai l’ultima? Meno di un’ora fa, non lontano da qui è esplosa una Panda. Già pare che fosse un Kamikaze saltato anzitempo >>.
<< Bene – commentò la prima – un bastardo in meno.>>
>> Pare che il pezzo di carne più grosso che è rimasto sia buono per gli hamburger. Tutto ciò che si può identificare sono brandelli di tessuto nero e ciuffi di lunghi capelli scuri. Lunghi, quindi… >>
<< Una bastarda in meno>> concluse la collega con un ghigno.
Parisotti vacillò un attimo.
<> Chiesero le due donne in coro, facendosi di colpo premurose.
<>
Da un’ora il chirurgo si rigirava nella brandina con gli occhi sbarrati. Quando l’infermiera bussò scattò come una molla.
<< Mi perdoni – disse la donna – ho spiegato alla ragazza che la gamba potevo medicargliela anch’io, ma ha insistito per vedere proprio lei, non vuol sentire ragioni. >>
Non aveva finito di parlare che il medico era già in corridoio. Salma indossava dei jeans larghissimi, una maglietta rossa scolorita, e una bandana che copriva solo in parte la sua testa rasata.
<< Questi erano stesi ad asciugare in un cortile, a quell’ora i negozi erano ancora chiusi, così li ho rubati. Ora ti toccherà adottare una ladra.>>
Parisotti stese una mano come se si aspettasse di ricevere qualcosa.
<< Che vuoi dottore? >>
<< I miei venti dollari. >>
<< Mi spiace – disse Salma seria seria – li ho spesi ieri sera. Con cosa credi che abbia pagato il mezzo capretto che ho fatto saltare in aria poco fa? >>. Poi scoppiò a ridere e abbracciò il suo nuovo papà.

Due donne

di Petruzziello Carla Salerno, Seconda Classificata

Una donna si trova a dover fare i conti con il proprio passato, con l’esperienza del dolore e della malattia da lei vissuta con studiato distacco, con la ferma intenzione di soffrire il meno possibile. La stessa esperienza ora vissuta da un’amica, che invece cerca in lei partecipazione e conforto, scioglie quella corazza protettiva eretta dalla donna per schermire paura e disperazione e la pone nella dimensione universale della solidarietà nel dolore.
Viene rappresentato, con estrema delicatezza e profondità questo percorso di crescita emotiva nella consapevolezza che si può tornare alla vita, e per il sapiente uso dei termini del linguaggio specifico cinematografico che rendono in maniera più incisiva il desiderio di “fuga” dall’inquadratura della vita
Sedute sotto questo pergolato, con due bicchieri alti in cui il ghiaccio si scioglie lentamente, senza volerlo attiriamo l’attenzione di chi arriva. Tra le fioriere avanzano coppi, gruppi, persone sole; non c’è nessuno che non si volti un istante a sfiorarci con lo sguardo. Qualcuno indugia più a lungo. Tu non ti accorgi di nulla. Rigiri la cannuccia nel liquido colorato, fissi con gli occhi un’immagine nel vuoto, con le dita corri sui rilievi del tavolino, sul piano liscio di ceramica vietrese, sui bordi di ferro battuto; e con la mente corri altrove, a tempi e a luoghi lontanissimi, sempre vicini per te, penosamente incisi nella memoria.
Vorrei parlare, e invece resto in ascolto: del tuo silenzio, del mio, dei rumori del traffico appena attutiti, del respiro della città ansante, fumosa, delle ombre della sera che scendono dense e azzurre sul crepuscolo estivo, delle luci che si accendono a poco a poco e ritagliano il tuo profilo in chiaroscuro.
Quando varco la soglia di quell’edificio basso, a pianta regolare, sono un’altra persona.
Registro appena le impressioni esterne: la campagna tutt’intorno, il lieve odore di stallatico, l’erba del prato curata ancora intrisa dalla nebbia, la nebbia sottile e triste di Milano. Ho l’attenzione concentrata in un solo punto. E appena ho finito esami e controlli non vedo l’ora di uscire, per riprendere di corsa il tram nella direzione opposta, tuffarmi nel centro caotico, affollato, lasciarmi travolgere e sedurre dal flusso ininterrotto della gente d’ogni colore, delle strade, delle insegne, delle vetrine scintillanti, della musica forte, incalzante, che si diffonde da chissà dove. Finché sono lì dentro nell’ospedale, non guardo nessuno, non parlo con nessun. Non riconosco né voci né volti. Mi annullo per scomparire dal luogo, per cancellarmi dal tempo: scivolo veloce e mirata sulle scale, nei corridoio nelle stanze verdi e bianche tutte ugual, per non restare impressa nel fotogramma: per dire poi che non mi è appartenuta questa realtà, che non ho mai vissuto questa scena. Perché deve trattarsi di un Film, di una finzione assurda da cortometraggio, di un incubo dal sonno convulso e agitato. Ci sarà un risveglio: forse c’è già stato. Ogni giorno apro gli occhi sulla mia vita metodica, ordinata, saldamente ancorata al benessere e alla normalità, con le sue occupazioni rituali, i suoi ritmi studiati, ripetuti, rassicuranti.
E non ho voglia di riavvolgere la pellicola. Che la luce abbagliante bruci i ricordi nascosti nella camera oscura. Sono qui, ora, in questo locale elegante: abbronzata, disinvolta, attaccata alla mia bellezza ricostruita, a tutta un’esistenza ricostruita al duro prezzo di lacrime e sangue. Ho eretto un muro tra me e le miserie dell’infelicità, dell’abbandono della malattia.
Tutta la retorica della solidarietà sociale si è infranta, schiumante, rabbiosa, sugli scogli della disperazione personale: non ho chiesto pietà per le mie piaghe aperte, non rendo consolazione a niente, a nessuno.
Ma ci sei tu a farmi da specchio. Tu piangi senza frenarti, parli a voce troppo alta adesso: ci sentiranno dai tavoli vicini. Non è giusto che il nostro segreto sia violato da orecchie curiose e occhi indiscreti. Da anni lavoriamo nello stesso ufficio; come ci ritroviamo confidenti e amiche? Potremmo essere semmai rivali: contenderci il primato dell’ammirazione, degli sguardi maschili, della stima del direttore, dei colleghi, dei clienti. Due donne di potere, non abbiamo mai rinunciato alla vanità né al nostro ruolo: o amate o odiate, ma sempre illuminate dai riflettori. E invece ti tremano le mani, le ciglia, le labbra,. Vorrei toccarti farti sentire con le dita la forza il calore della mia presenza, infonderti coraggio per combattere all’ultimo sangue i mostri che ti si parano contro, spietati, accani ti crudeli. Li ho visti anch’io nei giorni della guerra senza tregua, nella sequenza fatale dei referti, dei commenti indecifrabili, a mezza voce, dei reparti della sofferenza propria, indicibile, e dell’altrui indifferenza, del rosso veleno distillato goccia a goccia, delle storie raccontate con distacco, fino alla fine, dalle teste calve, dei vomiti, dei dolori e dei fetori non più umani, inevitabili, incontenibili. Vorrei gridarti che non puoi nutrirli ancora col tuo tormento, che devi aggredirli con la spada della rivolta del sacro sdegno, tagliare teste, trapassare ventre e cuore roteando la lama incandescente del tuo furore, dell’energia che lacera e risana: gli spettri non possono niente contro la trasmutazione; finiranno in cenere se li ardi col fuoco di una fede inesausta, e dal rogo sorgerà una nuova vita, in una nuova forma, per una nuova realtà.
Vorrei, e l’uro mi resta contratto in gola. Ho paura. Temo che se mi lascio raggiungere da te, se rispondo alla stretta della tua domanda, la mia corazza andrà in pezzi con fragore di ferraglia e rivelerà l’anima vulnerabile, fragile, indifesa. Intorno si infittisce il brusio delle conversazioni, punteggiato da scoppi di risa, mentre aleggiano nell’aria pulita dalla brezza aromi dolci di liquori e caffé e scie di profumi fruttati. E dentro mi sale e invade ogni fibra l’amaro rimpianto delle parole frivole, dei discorsi mondani,, nelle feste, nei ritrovi abituali, dove s’incontrano le comitive, e intrecciano dialoghi e gesti in giochi d’intese consuete, e si muovono insieme sospinte da correnti sottili, da sogni e bisogni di contatti veloci, di rapide fugaci gratificazioni dei sensi, tra sorsi di liquida, leggera euforia, bocconi di gusto piccante e salato, giudizi sull’ultimo film, sul libro del conoscente che scrive, ironie facili, cattive su tresche ed imprese amorose di amici e nemici: storie minuscole, insignificanti nell’ordine cosmico, che pure pulsano nel cerchio chiuso di questo pezzo di mondo, con le sue regole fisse, i suoi recinti, i suoi finti successi e le dorate solitudini arroccate in fortezze nel deserto.
Vedo al di là del muro, adesso, pur restando all’interno: vedo la faccia della medaglia e il suo rovescio. Da lontano arriva l’eco di una melodia avvolgente: è un notturno di Chopin; un concerto di pianoforte al chiaro di luna, che subito mi trasporta in un’atmosfera più pura, in un cielo limpido e senza nubi, e di lì, oltre i pianeti, oltre gli astri e le galassie, in un universo più alto, con leggi fisiche diverse, con verità metafisiche visibili, certe assolute. Respiro a fondo. Per qualche minuti mi impregno di luce vivissima, di un senso intimo, inesprimibile, di eternità.
S’è fatto tardi: due donne si alzano, pagano il conto, si allontanano. Tu Sali in macchina, io torno a casa a piedi; tu cenerai con tuo marito ( i tuoi figli saranno già usciti ) io mangerò da sola e poi leggerò qualcosa prima di addormentarmi. S’è levato il vento, le stelle brillano nella notte fresca, lucida e nera come pietra d’ossidiana. Tacciono a quest’ora i rumori del traffico, il vociare confuso, le file e i bagliori dei fari. Appena lontano dal centro, le strade sgombre sono dei dispersi e dei randagi.
Mi ripeto che ho fatto del mio meglio per te, che ti ho dato tutto il conforto che potevo, che è più di quanto abbia ricevuto io, nelle stesse condizioni. E mentre cammino a passo svelto, sempre come fuggendo vilmente dall’inquadratura, all’improvviso m’investe tutta l’angoscia dell’esistenza umana, debole, impotente, sconvolta dai dolori e dagli orrori di disgrazie, sofferenze e desolazioni di ogni sorta, subite con rabbia o con rassegnazione: mi gonfia il cuore come una tempesta violenta, mi sommerge in un mare cupo, ribollente, come il lamento crescente, assordante, di un coro di tragedia che si estende, a ondate, fino a trascinare la mia vita, la tua, la vita di tutti i tempi e tutti i luoghi, in un naufragio comune di infelicità senza scampo.
E vorrei, con tutte le mie forze vorrei che ci fossero altre vite, altre possibilità offerte alle nostre scelte per ritrovare i sogni perduti: le emozioni troncate i desideri devastati, gli amori morti appena nati. Il mio bozzolo d’orgoglio, incrostato di amore e di rifiuto, si sgretola in polvere, in spasmi e singhiozzi di liberazione. Sopraffatta dalla pena, finalmente arresa, mi restituisco all’abbraccio misericordioso del dio crocifisso, così disconosciuto e offeso, così poco celebrato. Nella nebbia del pianto, oltre i veli acquosi dell’illusione, due crisalidi dischiuse in farfalle si levano in volo con bianche ali, e, vicine l’une altra, insieme solcano il buio, senza paura ne trapassano il mistero. Sotto la volta di velluto restano scie luminose, puntate all’orizzonte, che tracciano agli sguardi increduli le infinite vie della comprensione, dell’umana pietà, della pace.

Il Signor Caffé e la ripresa Tv

di Perricone Carmen Siracusa, Prima Classificata

Un intervista televisiva, da rilasciare da lì a poche ore, mette in crisi l’intervistato. Come aveva mai potuto accettare di partecipare a quel talk show, si chiedeva; lui un personaggio così popolare e conosciuto, sulla bocca di tutti… o forse sarebbe meglio dire “nella” bocca di tutti. Sì, perché l’intervistato impaurito è il caffé.
Viene rappresentato, attraverso un originale uso dei canoni letterari della favola, la moderna società dell’immagine, in cui è l’apparire ad avere il posto di comando. Dopo innumerevoli elucubrazioni, l’indole schietta e “democratica” della bevanda avrà il sopravvento. E, come in ogni favola che si rispetti, sta al lettore tranne la morale

“Venghino, signori, venghino!” – per la prima volta un’intervista televisiva al Caffé. “La bevanda nazionale ed internazionale si confessa in esclusiva. Non mancate stasera all’appuntamento a casa vostra su Rete…”
Radio e televisioni strombazzavano l’avvenimento. E nel chiuso di casa sua, il Caffé pensava e ripensava a questa storia della diretta TV. Cosa diavolo gli era passato in mente di partecipare ad un talk show? Non era stata sua l’idea, no di certo. L’avevano coinvolto, corteggiato per anni e alla fine, un po’ per vanità un po’ per stanchezza, aveva ceduto. Non che non fosse già popolare, il Caffé, un tipo come lui, praticamente sulla bocca di tutti. O che non peccasse di vanità, un personaggio conosciuto in quasi tutti i Paesi del mondo, a tutte le età, a tutti gli stadi.
Perché ora, dunque, quel panico?
Sudava freddo il Caffé. Sudava freddo per quell’intervista che gli avrebbero fatto di lì a poche ore. E i motivi di apprensione c’erano eccome. A cominciare dal tempo a disposizione, appena mezz’ora per parlare degli inizi, della carriera, della sua personalità. Che dire che non risultasse banale o, peggio, scontato, per restare all’altezza di una fama mondiale che lo voleva in ogni casa, mito intramontabile?
Si sentiva piccolo e d’un tratto timido. In cuor suo invece sapeva che avrebbe dovuto mostrare energia e grinta da vendere. Lui, il Caffé, una leggenda vivente.
Eppure il Caffé di nemici ne aveva molti. Fin dagli esordi non gli erano mancati i detrattori. Ora che avevano la possibilità di dire la loro in diretta tivù, certamente ne avrebbero approfittato. Non pochi gli avrebbero rinfacciato che, come tutti, anche lui aveva un prezzo. La solita solfa che macchiava orribilmente vestiti e soprabiti – che noia – per non parlare di denti gialli ed alito cattivo. Probabile che si tirassero in ballo i suoi vizi – ahimè – mica tanto nascosti, tra i quali la caffeina. Sempre la stessa storia. Invece che minimizzati, i suoi difetti sarebbero stati a bella posta ingigantiti. Le informazioni, seppure vere, distorte fino ad assumere dimensioni grottesche, i suoi eccessi sarebbero stati messi alla berlina, vilipesi, oltraggiati da orde di benpensanti, salutisti ad oltranza, fanatici del healthness più spinto, tutti uniti in una crociata comune: “Via il Caffé dalle nostre tavole, case, vite!”. “Questo no, questo no!” – pensava confuso il Caffé. Stava esagerando se in questo momento vedeva tutto nero?
Chissà, magari qualcuno l’avrebbe pure difeso: “Toglietemi pure l’orologio, non il Caffé!” – avrebbe proferito con decisione. Ma non sarebbe bastato. Per i più, Lui si era macchiato per anni della colpa di rendere le persone nervose, irritabili. E che dire dei danni cronici causati al fegato se assunto a digiuno o, peggio, insieme al latte in una commistione acidula? Il Caffé sarebbe riuscito a mantenere i nervi saldi durante tutta l’intervista esibendo il self-control d’ordinanza e, magari, anche il black humour del suo cugino inglese Thè? O lo avrebbero tradito le focose origini sud-americane rispondendo alle domande dei cronisti tutto scuro in volto e agitandosi a dismisura? “Ohi, ohi” – pensava il Caffé – “tanti anni di onorata carriera buttati al vento per mezz’ora di esibizione catodica!”.
Eppure Lui nutriva alla fin fine un’ottima opinione di sé. Si attribuiva qualità importanti come l’aspetto forte, il gusto deciso, quel suo essere trasformista in virtù delle molteplici miscele e possibilità di assunzione. Era sempre Lui il protagonista indiscusso dei risvegli, quell’aroma possente che di mattina pervade le case, i bar, le scuole, gli uffici ad ogni ora. E’ Lui che circola ovunque, più variabile delle stagioni, più fedele di un cocker. Un amico fidato, il Caffé, capace di restare in piedi anche tutta la notte accanto a chiunque avesse una grana o un problema da risolvere. Un sostegno, un conforto, un alleato sicuro. Un compagno eccitante in più di un’occasione. Come riuscire a dire queste cose di sé senza risultare un pavone gigante? Un narcisista incorreggibile, un vanitoso patetico? Si girava e si rigirava nella sua tazzina, il Caffé, cercando mentalmente una soluzione.
Bisognava decidere subito, capire come potersi districare in quel pasticcio in cui si era trovato. Con tutta la sua ricchezza e popolarità – rifletté – non si era mai concesso il lusso di avere un agente. Era in casi come questo che il parere di un esperto poteva rivelarsi prezioso. Giurò che non si sarebbe perso d’animo. Avrebbe potuto sempre scambiare quattro chiacchiere al telefono con il Thè, suo cugino. Di sicuro lui avrebbe saputo come comportarsi anche in occasioni del genere, sfoderando la classe e la signorilità di un Lord inglese. Sempre bon ton, immancabilmente politically correct Sir Thè, ma alle volte anche noioso e pateticamente snob! No, niente consulenza britannica: gli rimaneva poco tempo a disposizione e non masticava neanche tanto bene l’inglese. Data l’emergenza della questione, pensò di rivolgersi alle frequentazioni di un tempo: l’Alcool, la Cocaina, l’Eroina e l’Erba. Chi meglio di loro era abituato ad essere ostracizzato e a difendersi dalle critiche, anche le più accese? No, a ben guardare neppure questa era una soluzione. Come fidarsi del parere di amicizie tanto compromettenti, invise a molti? Praticamente un autogoal.
Capì che doveva sbrigarsela da solo, senza aiuti esterni e presentandosi per quello che era. Un tipo semplice, uno che solo a prima vista poteva valere poco, cioè meno di un euro a tazzina. “L’importanza effettiva della bevanda non sta nelle qualità intrinseche o nella quotazione di mercato” – avrebbe detto il Caffé sotto i riflettori. “Non importa se servito in una tazza di porcellana o dozzinale di trenta centesimi”. Non era mica il tipo da fare differenze sociali, il Caffé, uno che sapeva entrare con disinvoltura in tutte le case, dalle nobiliari alle più modeste. A tutti regalava un sorriso, un’attenzione, un momento di relax. Cinque minuti di refrigerio prima di rituffarsi nel tran tran quotidiano, un’isola felice, una parentesi di benessere. Questo avrebbe detto di sé senza esagerare ma senza falsa modestia.
Il vero, inconfondibile, autentico pregio del Caffé sta nell’effetto placebo che sa generare. Nella capacità di infondere energia e grinta in chi la assume.
In come poche gocce di liquido nero operino in ogni angolo in ogni via città o Paese la stessa magia o sortilegio: il trasmettere a chiunque gli da fiducia un po’ della sua carica e della sua energia. E il Caffé finalmente sorrise. Ecco quanto avrebbe detto quella sera alla tivù.

Tirato per i capelli

di Barbera Pietro di Trapani, Terzo Classificato

Il trauma della nascita non è altro che il preludio della sofferenza che accompagnerà l’uomo per tutta la vita. Ma la vita non è eterna, è solo il tempo che ci viene concesso in uso.
Viene descritta tutta la precarietà del vivere del genere umano e per avere comunque ricordato, lanciando un segnale positivo, che anche nei momenti più difficili, la speranza, ultima dea, non ci abbandona mai.

Il primo incontro con la vita
lo ebbi sbattendo contro un forcipe,
tirato per i capelli,
ansimando vagiti di dolore.
Approdai già stremato
sulle scogliere dell’esistenza,
come un clandestino alla deriva
raccolto fra le onde
a cui è stato tolto tutto
tranne la speranza.
Capii subito
che il tempo non è nostro
ottenendone
una concessione fortuita
per l’uso.

Frammenti

di Monaco Salvatore Palazzolo Acreide (SR), Secondo Classificato

La vita è un insieme di frammenti che compongono il mosaico della nostra esistenza.
Viene descritto attraverso l’uso di un linguaggio semplice ma efficace la molteplicità dei sentimenti che albergano dell’animo umano

Frammenti di segreti,
che come spiriti
errabondi, bivaccano
nell’arcano della
nostra coscienza,
generando rimorsi.
Frammenti di cuore,
inghiottiti dalla
roccia dell’indifferenza.
Frammenti di luce,
oscurati dalle tenebre
del peccato.
Frammenti d’amore,
come tessere
d’un grande mosaico,
incenerite dall’orgoglio,
poi disciolte
nell’oceano del tempo.

Testimonianze zingare

di Gastone Vado (PU), Primo Classificato

L’uomo sfida ogni giorno se stesso, si mette alla prova e poi cerca nuove evasioni in mondi diversi dal proprio, mondi dove potersi vestire di quella patina di rispettabilità che caratterizza la vita di facciata. E proprio quei momenti di evasione sono d’aiuto per affrontare con spirito nuovo la consuetudine.
Viene descritto con verso scarno e asciutto il dramma dell’uomo schiacciato dalla piattezza della vita di tutti i giorni, dramma reso anche attraverso una stridente musicalità con un uso sapiente delle figure retoriche.

Testimonianze zingare
pungono
nel protetto impeccabile
scappatelle impertinenti.
Custodendo
frequenti aiuti
nello stupito,
s’intrecciano
rinnovate consuetudini

16/10/04

Premio Xifonia 2004

Premiata: Sarah Zappulla Muscarà

Premio Agorà 2004

Sezione Poesia a tema libero
Primo Classificato: Gastone Vado (PU) con "Testimonianze zingare"
Secondo Classificato: Monaco Salvatore Palazzolo Acreide (SR) con "Frammenti"
Terzo Classificato: Barbera Pietro di Trapani con "Tirato per i capelli"

Sezione Racconti
Prima Classificata: Perricone Carmen Siracusa con "Il Signor Caffé e la ripresa Tv"
Seconda Classificata: Petruzziello Carla Salerno con "Due donne"
Terza Classificata: Brescia Lorella San Salvo (Ch) con "Kamikaze"
Premio Speciale ACM: Angela Prandi Gargallo di Carpi (Mo) con "Sconosciuta"

Sezione Autori Augustani
Primo Classificato: Romano Salvatore con "I Venditori Ambulanti"

Sezione Nuovi linguaggi della poesia
Menzione speciale: Turba Vincenzo Rota d’Imagna (BS) con "Il mare è mosso"
Menzione speciale: Talio Mario Giorgio Caltanissetta con "Il cammino semplice"



Rassegna Stampa

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19/04/04

Quando Sarò Grande

Mia nonna è colei che mi ha cresciuto;
dovrei esserle grata...
spesso l’ho criticata!
Quando sono serena, il mio cuore
é con le sincero

Quando il silenzio mi accompagna,
ci sei tu
che scacci la mia malinconia.

Quando sarò grande
spero di diventare
una mamma, nonna e donna
come TE!



Alessandra Gianino

L'Uomo dei Gabbiani

All’ora di pranzo,
tra barche capovolte e la risacca,
semina pane sulla battigia,
in mezzo all’onde…
ed è subito ressa di gabbiani
addosso, intorno
a nasconderlo in una nuvola palpitante
e versi striduli come parole.

Spiaggia che biancheggia d’ali,
brulichio, come in festa paesana,
di corpi a mezz’aria,
di piume che odorano di vento e sale
di vecchi pontili, di porticcioli lontani….

Anche oggi l’epifanico incontro
con questi esseri liberi d’acqua e aria
che hanno imparato,
briciola dopo briciola,
a fidarsi e ad amarlo.

Ed egli parla loro dei suoi problemi,
della solitudine amara,
dello stillicidio di giorni
che non passano mai…
della speranza viva
di diventare un giorno
anche lui gabbiano.


Salamone Paolo

Il Pensiero

Non so niente
della guerra
non voglio nemmeno.

Non so degli odori
dei cadaveri,
dei rumori
dei carri,
del ricordo
nella mente,
niente.

Non so niente
nella guerra
non voglio nemmeno.

Non so delle ceneri
d’un fratello mio
non so della fame
della sete.
Di niente.

Il pensiero
diventa una lacrima.



Felice Giancarlo

Mostra Poesie all'Aperto

Buon Successo di pubblico ha riscosso la Mostra – Concorso “Poesie all’Aperto” organizzata dall’Associazione Culturale Megarese nell’ambito della Manifestazione “Aprile In Fiera” organizzata dal Forum Cittadino di Augusta e svoltasi dal 16 al 18 Aprile.
Le 23 opere arrivate sono state esposte nello stand dell’Associazione nella giornata di Domenica 18 Aprile presso i giardini pubblici di Augusta, dove un folto pubblico ha potuto esprimere le proprie preferenze votando l’opera più gradita.
Al termine della mattinata sono stati resi noti i risultati e proclamati i vincitori di questa prima edizione sono:
I Classificato Il pensiero di Felice Giancarlo di Belvedere (Siracusa)
II Classificato l’Uomo dei gabbiani di Salamone Paolo Palagonia (Catania)
III Classificato Quando sarò grande di Alessandra Gianino Augusta (Siracusa)