16/11/04

Due donne

di Petruzziello Carla Salerno, Seconda Classificata

Una donna si trova a dover fare i conti con il proprio passato, con l’esperienza del dolore e della malattia da lei vissuta con studiato distacco, con la ferma intenzione di soffrire il meno possibile. La stessa esperienza ora vissuta da un’amica, che invece cerca in lei partecipazione e conforto, scioglie quella corazza protettiva eretta dalla donna per schermire paura e disperazione e la pone nella dimensione universale della solidarietà nel dolore.
Viene rappresentato, con estrema delicatezza e profondità questo percorso di crescita emotiva nella consapevolezza che si può tornare alla vita, e per il sapiente uso dei termini del linguaggio specifico cinematografico che rendono in maniera più incisiva il desiderio di “fuga” dall’inquadratura della vita
Sedute sotto questo pergolato, con due bicchieri alti in cui il ghiaccio si scioglie lentamente, senza volerlo attiriamo l’attenzione di chi arriva. Tra le fioriere avanzano coppi, gruppi, persone sole; non c’è nessuno che non si volti un istante a sfiorarci con lo sguardo. Qualcuno indugia più a lungo. Tu non ti accorgi di nulla. Rigiri la cannuccia nel liquido colorato, fissi con gli occhi un’immagine nel vuoto, con le dita corri sui rilievi del tavolino, sul piano liscio di ceramica vietrese, sui bordi di ferro battuto; e con la mente corri altrove, a tempi e a luoghi lontanissimi, sempre vicini per te, penosamente incisi nella memoria.
Vorrei parlare, e invece resto in ascolto: del tuo silenzio, del mio, dei rumori del traffico appena attutiti, del respiro della città ansante, fumosa, delle ombre della sera che scendono dense e azzurre sul crepuscolo estivo, delle luci che si accendono a poco a poco e ritagliano il tuo profilo in chiaroscuro.
Quando varco la soglia di quell’edificio basso, a pianta regolare, sono un’altra persona.
Registro appena le impressioni esterne: la campagna tutt’intorno, il lieve odore di stallatico, l’erba del prato curata ancora intrisa dalla nebbia, la nebbia sottile e triste di Milano. Ho l’attenzione concentrata in un solo punto. E appena ho finito esami e controlli non vedo l’ora di uscire, per riprendere di corsa il tram nella direzione opposta, tuffarmi nel centro caotico, affollato, lasciarmi travolgere e sedurre dal flusso ininterrotto della gente d’ogni colore, delle strade, delle insegne, delle vetrine scintillanti, della musica forte, incalzante, che si diffonde da chissà dove. Finché sono lì dentro nell’ospedale, non guardo nessuno, non parlo con nessun. Non riconosco né voci né volti. Mi annullo per scomparire dal luogo, per cancellarmi dal tempo: scivolo veloce e mirata sulle scale, nei corridoio nelle stanze verdi e bianche tutte ugual, per non restare impressa nel fotogramma: per dire poi che non mi è appartenuta questa realtà, che non ho mai vissuto questa scena. Perché deve trattarsi di un Film, di una finzione assurda da cortometraggio, di un incubo dal sonno convulso e agitato. Ci sarà un risveglio: forse c’è già stato. Ogni giorno apro gli occhi sulla mia vita metodica, ordinata, saldamente ancorata al benessere e alla normalità, con le sue occupazioni rituali, i suoi ritmi studiati, ripetuti, rassicuranti.
E non ho voglia di riavvolgere la pellicola. Che la luce abbagliante bruci i ricordi nascosti nella camera oscura. Sono qui, ora, in questo locale elegante: abbronzata, disinvolta, attaccata alla mia bellezza ricostruita, a tutta un’esistenza ricostruita al duro prezzo di lacrime e sangue. Ho eretto un muro tra me e le miserie dell’infelicità, dell’abbandono della malattia.
Tutta la retorica della solidarietà sociale si è infranta, schiumante, rabbiosa, sugli scogli della disperazione personale: non ho chiesto pietà per le mie piaghe aperte, non rendo consolazione a niente, a nessuno.
Ma ci sei tu a farmi da specchio. Tu piangi senza frenarti, parli a voce troppo alta adesso: ci sentiranno dai tavoli vicini. Non è giusto che il nostro segreto sia violato da orecchie curiose e occhi indiscreti. Da anni lavoriamo nello stesso ufficio; come ci ritroviamo confidenti e amiche? Potremmo essere semmai rivali: contenderci il primato dell’ammirazione, degli sguardi maschili, della stima del direttore, dei colleghi, dei clienti. Due donne di potere, non abbiamo mai rinunciato alla vanità né al nostro ruolo: o amate o odiate, ma sempre illuminate dai riflettori. E invece ti tremano le mani, le ciglia, le labbra,. Vorrei toccarti farti sentire con le dita la forza il calore della mia presenza, infonderti coraggio per combattere all’ultimo sangue i mostri che ti si parano contro, spietati, accani ti crudeli. Li ho visti anch’io nei giorni della guerra senza tregua, nella sequenza fatale dei referti, dei commenti indecifrabili, a mezza voce, dei reparti della sofferenza propria, indicibile, e dell’altrui indifferenza, del rosso veleno distillato goccia a goccia, delle storie raccontate con distacco, fino alla fine, dalle teste calve, dei vomiti, dei dolori e dei fetori non più umani, inevitabili, incontenibili. Vorrei gridarti che non puoi nutrirli ancora col tuo tormento, che devi aggredirli con la spada della rivolta del sacro sdegno, tagliare teste, trapassare ventre e cuore roteando la lama incandescente del tuo furore, dell’energia che lacera e risana: gli spettri non possono niente contro la trasmutazione; finiranno in cenere se li ardi col fuoco di una fede inesausta, e dal rogo sorgerà una nuova vita, in una nuova forma, per una nuova realtà.
Vorrei, e l’uro mi resta contratto in gola. Ho paura. Temo che se mi lascio raggiungere da te, se rispondo alla stretta della tua domanda, la mia corazza andrà in pezzi con fragore di ferraglia e rivelerà l’anima vulnerabile, fragile, indifesa. Intorno si infittisce il brusio delle conversazioni, punteggiato da scoppi di risa, mentre aleggiano nell’aria pulita dalla brezza aromi dolci di liquori e caffé e scie di profumi fruttati. E dentro mi sale e invade ogni fibra l’amaro rimpianto delle parole frivole, dei discorsi mondani,, nelle feste, nei ritrovi abituali, dove s’incontrano le comitive, e intrecciano dialoghi e gesti in giochi d’intese consuete, e si muovono insieme sospinte da correnti sottili, da sogni e bisogni di contatti veloci, di rapide fugaci gratificazioni dei sensi, tra sorsi di liquida, leggera euforia, bocconi di gusto piccante e salato, giudizi sull’ultimo film, sul libro del conoscente che scrive, ironie facili, cattive su tresche ed imprese amorose di amici e nemici: storie minuscole, insignificanti nell’ordine cosmico, che pure pulsano nel cerchio chiuso di questo pezzo di mondo, con le sue regole fisse, i suoi recinti, i suoi finti successi e le dorate solitudini arroccate in fortezze nel deserto.
Vedo al di là del muro, adesso, pur restando all’interno: vedo la faccia della medaglia e il suo rovescio. Da lontano arriva l’eco di una melodia avvolgente: è un notturno di Chopin; un concerto di pianoforte al chiaro di luna, che subito mi trasporta in un’atmosfera più pura, in un cielo limpido e senza nubi, e di lì, oltre i pianeti, oltre gli astri e le galassie, in un universo più alto, con leggi fisiche diverse, con verità metafisiche visibili, certe assolute. Respiro a fondo. Per qualche minuti mi impregno di luce vivissima, di un senso intimo, inesprimibile, di eternità.
S’è fatto tardi: due donne si alzano, pagano il conto, si allontanano. Tu Sali in macchina, io torno a casa a piedi; tu cenerai con tuo marito ( i tuoi figli saranno già usciti ) io mangerò da sola e poi leggerò qualcosa prima di addormentarmi. S’è levato il vento, le stelle brillano nella notte fresca, lucida e nera come pietra d’ossidiana. Tacciono a quest’ora i rumori del traffico, il vociare confuso, le file e i bagliori dei fari. Appena lontano dal centro, le strade sgombre sono dei dispersi e dei randagi.
Mi ripeto che ho fatto del mio meglio per te, che ti ho dato tutto il conforto che potevo, che è più di quanto abbia ricevuto io, nelle stesse condizioni. E mentre cammino a passo svelto, sempre come fuggendo vilmente dall’inquadratura, all’improvviso m’investe tutta l’angoscia dell’esistenza umana, debole, impotente, sconvolta dai dolori e dagli orrori di disgrazie, sofferenze e desolazioni di ogni sorta, subite con rabbia o con rassegnazione: mi gonfia il cuore come una tempesta violenta, mi sommerge in un mare cupo, ribollente, come il lamento crescente, assordante, di un coro di tragedia che si estende, a ondate, fino a trascinare la mia vita, la tua, la vita di tutti i tempi e tutti i luoghi, in un naufragio comune di infelicità senza scampo.
E vorrei, con tutte le mie forze vorrei che ci fossero altre vite, altre possibilità offerte alle nostre scelte per ritrovare i sogni perduti: le emozioni troncate i desideri devastati, gli amori morti appena nati. Il mio bozzolo d’orgoglio, incrostato di amore e di rifiuto, si sgretola in polvere, in spasmi e singhiozzi di liberazione. Sopraffatta dalla pena, finalmente arresa, mi restituisco all’abbraccio misericordioso del dio crocifisso, così disconosciuto e offeso, così poco celebrato. Nella nebbia del pianto, oltre i veli acquosi dell’illusione, due crisalidi dischiuse in farfalle si levano in volo con bianche ali, e, vicine l’une altra, insieme solcano il buio, senza paura ne trapassano il mistero. Sotto la volta di velluto restano scie luminose, puntate all’orizzonte, che tracciano agli sguardi increduli le infinite vie della comprensione, dell’umana pietà, della pace.

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