12/10/05

Premio Xifonia 2005

Premiati: Avv.Elio Salerno - Rita Corona

Cospargi i tuoi Sali

di Mendola Giuseppe Augusta, Secondo Classificato

L’acqua è l’elemento primordiale nel quale si compie e si consuma il rito dell’amore. L’immergersi dell’amante nell’acqua profumata rappresenta il desiderio di offrirsi puro all’amato che lo accoglie come fosse mare. E il fluire delle onde diventa il ritmo degli amanti che all’unisono condividono frequenze conosciute.
Per aver rappresentato con garbo e delicata sensualità il rituale d’amore.

Cospargi i tuoi Sali profumati
nell’acqua ora t’immergi
e da essa sorgi
come germe o giunco
o lava o petrolio
adesso ti lasci guidare
mentre la luce lenta dalla finestra del soffitto comincia ad entrare
asciugati presto!
Prima di uscire vienimi ad amare
ora galleggi sul mio ventre
tu sughero nel mare
non temi la corrente
ne hai paura d’affondare
conosci dell’0nda l’andamento
e la segui calma
per diletto
per tuo piacere

Misurare o rinvangare

di Cappelloni Gastone - S.A. in Vado (PU), Primo Classificato

E’ meglio rivangare vecchi rancori e tentare di risolvere situazioni ambigue, o è meglio adagiarsi sulla consuetudine del quotidiano? Le convenzioni spesso smorzano l’impeto della voce che si affievolisce nel ricordo.
Per aver espresso il dilemma di chi, pur desiderando uscire allo scoperto, si adagia irretito dal senso del convenzionale.

Misurare o rinvangare
… tagliente impeto?
Gli intenti giocano
con riduttive imitazioni…
sgombrando
(sì ? ! )
L’involontario vociare,
percuotono
autoritarie abitudini.
< ; >
Dal senso di convenzionale
rappresentativo,
la Voce si riduce
a consumato Memoriale!

Solidarietà rifiutata palazzo di giustizia, secondo livello

di Romano Salvatore di Augusta, Terzo Classificato

Denunciare le estorsioni subite non sempre è facile e la fiducia nelle istituzioni spesso non mette a riparo dalla paura di ritorsioni, da una vita blindata che, ironia della sorte, toglie la libertà alla vittima che diventa preda della solitudine. Non sempre però scatta tra le vittime quel senso di solidarietà che nasce dalla consapevolezza di essere nel giusto e che dovrebbe creare attorno ad esse un cordone protettivo.
Per aver rappresentato la difficoltà dell’uomo che, provato dall’esperienza del violento ricatto, quasi a rimuovere la sofferenza generata dal ricordo di tale vessazione, non riesce ad essere solidale con chi ha provato la stessa traumatica esperienza.

Nel giorno in cui conobbi le morse dell’arroganza, conobbi anche la solitudine del giusto angariato dal disperato di turno a cui la vita negò la sua generosità.
Eravamo entrambi soli, ciascuno con le sue ansie, con i suoi diversi pensieri e le più malevole previsioni. Lui Il Giusto stava seduto in un angolo. Io, in preda al mio andirivieni, davanti al piccolo monumento istoriato da schegge di vetri colorati, dedicato alla memoria di chi morì ammazzato al deflagrare dell’odio implacabile.
Anche il sole con la sua violenta luce sembrava essermi nemico e non mi consolava con il suo tepore, anzi, fin troppo ingeneroso attraversava la grande vetrata per divertirsi ad illuminare il mio volto spento e la serenità del giusto, a svelare le nostre identità e il comune luogo di provenienza, che io inutilmente tentavo di nascondergli dal naso in giù dietro il bavero del cappotto.
sui marmi lucidi scorrevano i carrelli spinti dai frettolosi uscieri che come infermieri entravano e venivano fuori dalle aule, somministrando pandette e fascicoli fin troppo zeppi di carte bollate. Procedevamo agili, a volte calpestando indifferenti l’ombra colorata e allungata del monumento attraversato dai raggi di sole e proiettata sul pavimento.
Fluivano inutilmente veloci aprendosi la via nello statico movimento della giustizia, dribblando toghe nere, borse di lucido cuoio, carabinieri, pubblici ministeri, extracomunitari, giornali aperti e gente in cerca di diritti.
Dall’elicoide della scala sbucarono come due malerbe sicure di sé, i baldanzosi sopraffattori accusati dal Giusto per tentata estorsione.
Il Giusto mi guardò negli occhi, si alzò, mi venne incontro senza che io volessi e mi chiese: - Siamo dello stesso paese o mi sbaglio?
- Sì…- Gli risposi infastidito, volgendo lo sguardo sui palazzi prospicienti oltre l’invetriata.
- Conosce quei due?
E io mentendo a me stesso, inarcai le labbra chiuse e scossi la testa nel movimento negatorio.
- Sa che qui due mi hanno chiesto il pizzo?... Non si può più lavorare.
- Mi dispiace…
- “ Loro” sanno chi sono e di che vivono, però mi fanno venire qui come se io non avessi denunciato il vero. No … non conviene…
- Ha ragione … purtroppo… ci tocca venire qui…
Nel frattempo l’anziana madre che accompagnava i due disperati, s’avvicinò a noi con modo indifferente per sentire quello che ci dicevamo, per carpire qualche parola che le avrebbe consentito d’inveire contro di noi. Io, che intesi così il suo avvicinarsi, m’allontanai dal Giusto con la scusa d’andare a cercare la mia “borsa di cuoio lucido”, che tardava all’appuntamento vicino il piccolo monumento istoriato da schegge di vetri colorati, dedicato alla memoria di chi morì ammazzato al deflagrare dell’odio implacabile, lasciando così da solo quell’uomo onesto che s’era avvicinato con semplicità, solo per offrirmi la sua solidarietà.
Dopo qualche istante, provai vergogna per il mio timore e del mio comportamento

La ruga che indossi

di Perricone Carmen - Siracusa, Seconda Classificata

Il tempo che passa lascia segni profondi in ognuno di noi. La vita, l’esperienza, i dolori, le gioie, le nostre emozioni possono essere lette tra le pieghe dell’anima ma anche tra quelle del volto. Le rughe indossate raccontano ciò che siamo a chi sa leggerle, sono tatuaggi naturali amati da chi ci ama.
Per aver raccontato quanto, col passare del tempo, i segni che individuiamo sul volto di una persona cara diventino per noi punti di riferimento, pagine sulle quali è scritta anche la nostra storia.

La notai un giorno all’improvviso. Se ne stava lì piazzata da chissà quanto tempio ed io non vi avevo davvero fatto mai caso. Non rimaneva ferma, anzi, dotata di incredibile vitalità, si contorceva tutta al ritmo dei movimenti della bocca, del viso, della testa. A me che la fissavo stupita, quella piega appariva adesso come la conclusione più naturale e più logica di un sorriso aperto e leale.
Sarà stato perché amavo quel viso che finii con l’amare anche quella piega? Da allora la ricercai con lo sguardo, la sua presenza mi divenne talmente familiare da procurarmi allegria e conforto.
Solitamente odiata, rifiutata, condannata, per me è diventata l’espressione più evidente di un fisico che si evolve sull’onda delle emozioni che “lasciano il segno”. Se è vero che sul corpo resta impresso il tracciato di tutte le nostre esperienze, ogni ruga esprime con tutta se stessa lo spirito dominante di chi la indossa.
Ci sono rughe tristi, con gli angoli rivolti verso il basso, che mostrano un prolungato strato di sofferenza, ansia, attesa. La ruga di cui parlo io è cosa ben diversa: in lei si trova invece apertura verso il mondo, dignità, fiducia, dedizione, sacrificio, rispettabilità,
E un corpo che possiede un tale “tatuaggio sulla pelle” potrebbe andare fiero di indossarlo.
Io non so se la persona in questione se ne renda conto. Che per me dietro quella sua ruga c’è racchiuso un mondo.

Rosso brillante

di Petruzziello Carla di Salerno, Primo Classificato

Il tema della luce è il leitmotiv del racconto breve che ha per protagonista una ragazzina quindicenne che, non a caso, si chiama Lucia. Quasi tutto “brilla” nella sua vita: è brillante a scuola, preferisce distinguersi per l’originalità dei suoi elaborati piuttosto che brillare di luce riflessa copiando dal lavoro altrui; in casa e fuori brilla per la sua sobrietà, per il suo rispetto per le regole, per il suo buon senso. La parte “oscura” della sua vita è rappresentata dalla sua famiglia: la sorellina spiona non brilla certo per complicità e solidarietà con Lucia; i genitori, che non avrebbero motivo di lamentarsi di lei, usano una sua piccola trasgressione per perdere il lume della ragione e cominciare a litigare, chissà poi per quale altro reale motivo. Nasce da qui il suo desiderio di fuga, la necessità impellente di uscire dall’oscurità e perdersi, luce nella luce, in una luna piena, candida, materna.
Per aver rappresentato con sapienza, attraverso un’indovinata metafora, la solitudine che spesso attanaglia gli adolescenti che a volte non si riconoscono né in casa né tra i coetanei, una solitudine che a volte però innesca meccanismi che conducono verso un percorso di crescita e di emancipazione.

“ Basta non lo sopporto! Questa volta è troppo!” Lucia sbatté la porta della sua stanza. Fuori, la discussione fra i suoi genitori continuava, con toni di voce alterati. Per no sentirli, si calcò sulle orecchie le cuffie del lettore cd. Tutto per un puntino rosso brillante…
I suoi non avevano motivo di lagnarsi di lei. Lucia non portava jeans stinti e strappati, né maglie corte aderentissime.; non pretendeva il motorino, e, a costo di sembrare ai compagni di liceo un’aliena, non fumava. Non aveva mai rubato un lucidalabbra in profumeria e non aveva mai tirato l’alba in gita scolastica. Anzi, in verità, le piaceva studiare, e raramente copiava un compito, perché ci teneva ad essere originale.
Ma – è questo il punto – adorava i luccichii. Li adorava, come una gazza ladra reincarnata in una ragazzina di quindici anni. Nelle sere di luna, prima di dormire, si affacciava a contemplare le stelle e il tremolio di luci sul maree all’orizzonte. Aveva polverine dorate da spargere sul viso, paillettes cucite a mano sulle felpe, anelli sfavillante alle dita.
Da due giorni, poi, aveva fatto la follia: un piercing! Nonostante il divieto dei genitori, si era regalato un puntino rosso brillante nell’ombelico. Rosso come il suo piccolo cuore, e brillante come i suoi giovanissimi sogni..
Ma adesso era scoperta. La sorellina smorfiosa le aveva fatto la spia. “ non mi resta che fuggire! Sparire nel nulla ! “ Guardo per qualche istante il riquadro della finestra, familiare. Poi riempì lo zaino, si buttò un pullover sulle spalle, attese che tutto fosse buio e silenzio, scese pian piano le scale e fu fuori nella notte.
Le strade, immerse nella sonno, erano deserte, l’aria di primo autunno umida e tiepida. Sull’asfalto lucido di pioggia, una striscia d’argento –la luna piena – guidava i suoi passi; incantata da quei riflessi opalescenti, trasognata, Lucia la seguiva. Camminava lieve e intenta, come su una scia di stagnola scintillante. Continuò per ore senza fermarsi, mai.
All’alba del mattino dopo, quando i suoi cominciarono a cercarla, il cielo era denso di mille goccioline luccicanti. Nuvole scure nascondevano le colline. Di Lucia e del suo zaino non c’era traccia. Bassa sulla città, la luna piena, candida, misteriosa, risplendeva ancora; e proprio nel centro aveva, visibilissimo, un puntino rosso brillate.

25 Euro niente più

di Rovini Maurizio - Pisa, Terzo Classificato

Il duro tran-tran quotidiano mal si sopporta, soprattutto se c’è il desiderio forte di uscire dall’anonimato, desiderio frustrato da una condizione di necessità. Non potendo uscir fuori dalla mediocrità, ci si trova spesso a sognare la vincita importante che diventi anche un modo di rivalersi sulla propria condizione attuale. Nulla vieta di sognare, ma i sogni restano pur sempre sogni e per tirarsi su c’è bisogno di gratificazioni possibili, magari sperando solo che finalmente torni a splendere il sole…
Per aver rappresentato uno spaccato della società contemporanea, mettendo in evidenza quanto possa essere alienante la condizione di un uomo insoddisfatto del proprio lavoro e della propria esistenza, poiché al suo legittimo desiderio di emergere corrisponde invece il suo essere uno fra tanti.

Grigio l’orizzonte dietro la finestra, nubi nella pioggia mattutina, lenta e inesorabile.
Capelli sbandati, coperte alzate, freddo invadente che desta i sogni rimasti.
Era il mattino ricorrente, lo svegliarsi dal sonno interrotto al grido della sveglia, di quel mostruoso oggetto che odiavo più di ogni cosa sulla terra, come se fosse lei la fonte dei miei guai.
Tardavo qualche istante, ogni mattina, ad osservare il vetro appannato della finestra meditando sui miei guai, per destarmi nuovamente, sospirando, e constatare che ero in ritardo.
La mia giovane età spazzata via dal bisogno di lavoro, con i libri sul tavolo aperti nei ritagli, con tanti sogni offuscati dalla moneta. Il denaro non sarà tutto nella vita, così viene detto comunemente, di certo aiuta parecchio; non avrei fatto davvero quello che facevo se ne avessi avuto almeno un po’.
Pioveva sempre laggiù, forse pioveva anche quando c’era il Sole, forse ero io che piovevo.
L’umore non era dei migliori al risveglio, la barba, il sonno insistente, i vestiti sfiniti, la vespa che non partiva.
Sempre la stessa mattina, sempre uguale. La vespa con il parabrezza rattoppato che non voleva sapere di mettersi in moto. Echi tra le case, udivo altri combattimenti feroci con mezzi come il mio, qualcuno vinceva ed altri no. Ferri vecchi da buttare, parolacce che solcavano l’aria umida, imprecazioni che facevano anche sorridere, alla fine le macchine si inchinavano all’uomo, che benché già sudato, riusciva a partire.
Il freddo dell’inverno entrava da ogni parte, dalle maniche, dalla cintura, nelle scarpe. La giacca di pelle, vera finta pelle, regalata dalla mamma a Natale non bastava; la “Gazzetta dello Sport” era il mio alleato fedele. Platini e Falcao, eroi di persone vecchie come me, mi avvolgevano nel loro caldo mantello cartaceo.
L’esercito dei “giornalai” affrontava ogni mattina il gelo, armeggiando con i fogli rosa finché, bestemmiando partiva com’era venuto.
Dopo qualche metro, i fogli inesorabilmente volavano. Io non ero da meno. Dopo qualche metro già si iniziava a battere i denti e a contare i chilometri mancanti.
La città affumicata nasceva dalla nebbia, vespe e motorini incolonnati si allineavano in silenzio schivando le auto. Ricordo i cruscotti illuminati da spie colorate che passavano veloci al mio lato, che bel tepore doveva esistere nell’abitacolo… che fortuna avevano loro, lì a caldo.
Spesso, quando la fortuna mi assisteva, mi posizionavo dietro ad un pullman che emanava un po’ di calore dal motore. I passeggeri senza sorrisi incrociavano i miei sguardi senza un saluto. Ormai li conosceva quasi tutti, il tipo delle 7,10, l’altro delle 6,30, pian piano conoscevo le loro abitudini, da dove venivano e dove scendevano.
Passerò ancora poco tempo qua dietro di voi, che cosa avete mai da ridere, maledetti che usano il pullman. Farò fortuna, mi gridavo dentro è solo per questo periodo, ripetevo.
Tutti i nostri sogni, di tutti quelli che erano con me sulla strada, confluivano al passaggio a livello del treno delle sette che era sempre in ritardo. Il tempo passava sognando; che cosa avrei fatto vincendo al Totocalcio, aspettando il treno da Firenze che non passava mai.
Tutti in quel momento, nessuno escluso, avevano quel pensiero, misto al sonno interrotto, pregno di speranza utopica, di miracolo, di beneficenza da fare quando sarò ricco.
Allora mi alzerò presto la mattina per vedere questa carovana che mestamente si reca al lavoro, li saluterò e poi tornerò nel letto, al caldo. Ogni mattina, ogni secondo, ogni rabbioso istante della vita.
Poi il treno dei pendolari passava sferragliando e portando nella vita reale i presenti, maledetto treno!
Che tristezza però, l’esser ridotti a sperare nella fortuna, il rimanere aggrappati all’esistenza per merito di tredici pallini scritti su di un foglio. Unico faro acceso nella vita legato alla Sisal.
La sirena chiama, scandisce la vita, detta il ritmo.
La fabbrica non può attendere, un pugno di nulla in fondo al mese, il padrone in Mercedes nel cortile, i servi in coda ansimanti di sfiorare il suolo dove è passato, il mondo si ripete, la storia si ripete, Vico aveva ragione. Sempre la stessa scena, in tutte le epoche.
Maledetto pezzo metallico che mi passi davanti, maledetto dado, rumore, fumo, tu che mi mangi l’esistenza, tu che mi assorbi le braccia, mangiami anche il pensiero, rendimi scemo, automa, servo muto, perché così sto male.
Non mi far ragionare, fa che sia ebete da non capire che non servo a nulla, che lo stomaco ha vinto sulla testa, fa che sia felice di stringere un dado, almeno finché una macchina non lo farà al mio posto.
Non è il lavoro quello che deprime, è il tormento che mi porto dentro nella continua smania di voler migliorare, di uscire da questa storia senza futuro, per realizzare le proprie aspirazioni.
La giornata trascorre com’è iniziata, il salario serve solo per mangiare; 25 euro, niente di più.
File di uomini stanche, dallo sguardo assente, anonimi, solcano la strada di casa pensando al turno che verrà, alle rate da pagare, al mutuo con la banca, alla scuola dei figli, al dentista, al politico disonesto che la farà franca, al professionista che non paga le tasse e ai pensieri folli di bisogno di giustizia che non c’è e mai ci sarà.
Voglio essere disonesto, ti gridi addosso, voglio sistemarmi una volta per tutte, uscire da questo letamaio, ma la strada finisce, il fiume in piena dei rabbiosi sognatori è scemato nelle loro case e i pensieri lasciano il posto alla cena.
La casa è il luogo di chi non sa osare, la spiaggia dove il Sole dei pavidi non tramonta mai, dove tutto deve rimanere così. Magari aver coraggio come la rabbia…
Un po’ di televisione e poi a letto, pensando al turno del domani, sperando che non piova di nuovo e che almeno ci sia un po’ di sole.

Recuperante

di Gai Pietro - Feltre (BL), Secondo Classificato

Il lavoro del recuperante, dalla fine della Grande Guerra ad oggi, ha permesso di raccogliere i materiali bellici presenti nelle zone in cui si verificarono gli scontri più duri e di consegnarli ai vari musei della guerra come testimonianza del più atroce mezzo che l’uomo conosca per avere ragione su un altro uomo. Ma il recuperante opera un altro servigio: restituisce, ripulendoli, spazi di rara bellezza naturalistica agli escursionisti che diversamente, per ovvie ragioni di sicurezza, non avrebbero potuto goderne.
Per aver testimoniato, attraverso il racconto autobiografico, il “passaggio delle consegne”, una sorta di eredità concessa dallo zio al nipote, e per aver “ reso giustizia”, dandone conoscenza, al lavoro difficile, pericoloso ed ormai quasi estinto, del recuperante tradizionale.

Ospitale di Cadore Belluno 1972.
Ci aveva messo tutto l’entusiasmo possibile. Ma, per un settantenne o giù di lì, improvvisarsi bambinaio o come diavolo lo si voleva chiamare, era impresa improba. Suo figlio era ormai di mezza età e, a parte la nipote, piccoli ospiti, in casa, non ne ricordava da secoli. Quando i lontani parenti del fondovalle si inerpicavano sin lassù, tra le Dolomiti del Cadore, ad un passo dal cielo, si creava sempre lo stesso problema. Mentre le donne del gruppo si raccoglievano in salotto a raccontarsi aneddoti e fatterelli in tanti mesi accaduti a parenti e conoscenti, prima dell’irrinunciabile visita al cimitero, il più piccolo della compagnia toccava in sorte a lui. Il bel tempo, era un potente alleato. Camminate lungo i sentieri, ad osservare le tane delle bestie selvatiche, le impronte, i fiori multicolori, ad offrire noci sgusciate all’ingresso della tana del diffidente ghiro, ormai quasi addomesticato, a poca distanza dalla casetta fra pascoli e guglie svettanti… il problema era presto risolto. Per fortuna, il marmocchio era un tipo tranquillo sempre attento ad ascoltare e imparare. In caso di pioggia, si poteva sempre salire nella mansarda, ristrutturata con le proprie mani, tirar fuori il violino e, di fronte al caminetto accesso, spiegare ai sei anni avidi di nuove esperienze i segreti degli spartiti musicali, delle note e degli strumenti che lui stesso si era pazientemente costruito. Aveva perso la nozione di quanti arti e mestieri avesse appreso, nella sua lunga esistenza. In un paese dove la fame spesso aveva mietuto le sue vittime, anche in tempi recenti, e l’emigrazione era stata la più usuale delle vie per sfuggirvi, un patrimonio di conoscenze tanto vasto, gli era tornato spesso utile. Peccato solo che, con l’unico figlio dirigente statale, tutto fosse destinato a scomparire alla sua morte. In quel momento, il problema era però un altro: per la prima volta, si trovava a disagio di fronte al lontano nipote. Il suo limitato campionario adatto ai bimbi, lo aveva già esaurito nella precedente visita. E lui si aspettava qualcosa di nuovo. Come non deluderlo? L’idea gli si fece strada quasi casualmente. Doveva terminare alcuni lavoretti,. In particolare la recinzione dell’orto…
“Adesso faremo un sarto più in su, lungo il sentiero. Ho bisogno di un aiutante per finire per bene di sistemare la rete. Ti ho aspettato apposta…
Inorgoglito, il bimbo lo seguì mentre tracciava la strada. Ad un tratto, il bimbo si fermò, raccogliendo dal percorso sterrato un piccolo oggetto bruno. Cos’è questo, zio Attilio?” “E’ una pallottola. Sai, quassù si è molto combattuto, nella prima guerra mondiale. Italiani e austriaci, poi, abbiamo avuto i tedeschi nella seconda, ma erano gli stessi austriaci della prima, e non hanno fatto danni. Quando avevo pressa poco la tua età, aiutavo i miei parenti a raccogliere ferro e rame abbandonati dai due eserciti. Granate, munizioni, armi, elmetti… tutto andava poi in fonderia giù nella vallata del Piave”.
Davvero, zio? Non avevi paura? Ed è rimasto come allora? Mi porti a vedere…
Il fiume di domande gli strappò una risata. “Abbi pazienza. Quando saremo a casa ti mostrerò qualcosa che conservo ancora in cantina. Un po’ di munizioni, un elmo austriaco… penso di poterli rimediare. Anche adesso, stiamo cercando qualcosa di allora. Indicò in basso il grande orto, circondato da strani pali di ferro contorti. “Si chiamano in dialetto “code de porthel”, code di maiale. Servivano per sistemare i reticolati. Me ne manca una. E spero di trovarla in quel boschetto a destra, dove correva un trincerane di prima linea. Poi, andremo a dare un occhiata nella galleria scavata nella roccia viva più in basso, sulla destra del paese. Se non ti stancherai troppo presto, ti spiegherò come guardare lungo gli scoli dell’acqua piovana le piccole frane, tra le radici degli alberi cresciuti trai i costoni. Si trova sempre qualcosa d’interessante… Ovviamente, guarderai soltanto per sicurezza. Magari più avanti faremo qualche ricerca insieme. Adesso comunque, infiliamoci in mezzo quei larici, ed apri gli occhi. Di quel palo ne ho proprio bisogno”
Lo aveva sorpreso lo sguardo strano, quasi rapito del giovanissimo accompagnatore. Aveva preso così sul serio il compito che, nonostante le avesse viste per la prima volta pochi attimi prima, fu lui a scoprire nell’oscurità fittissima delle piante secolari, la “coda de porthel” semicoperta da rami e aghi di conifera. Doveva riconoscerlo: per quello che continuava a chiamare “gioco”, il nipote aveva un istinto davvero speciale…

Monfenera, 2001. Lungo il ripido declivio le mani guantate, incuranti di rovi e sassi, sondano, frugano, scavano, puliscono. Il picconcino entrerà in azione subito dopo, mentre dalla terra bruna una dopo l’altra ricompaiono le testimonianze di una tragedia ricordata ormai solo per dovere di calendario. Pallottole francesi, bottoni austriaci, gavette italiane arrugginite, cucchiai tedeschi, filtri per maschera antigas. Bombe a mano dalle leggere cariche offensive degli imperi centrali, montate su manici di legno miracolosamente ancora integri, pesanti ananas difensivi del Regio Esercito e delle truppe transalpine ancora mortalmente attivi, granate di ogni calibro e contenuto, dal semplice tritolo agli shrapnell, pallette uncinate per fare scempio della fanteria avversaria, sino al gas, la terribile iprite color mostarda che spellava vivi le disgraziate vittime. Dieci cento attrezzi per massacrarsi bestialmente nel corpo a corpo, dalle baionette a sega alle vanghe, dalle zappe da trincea alle mazze e pugnali, ai coltelli d’assalto, alle lame a mezzaluna bosniache sino ai manici di piccone abbandonati tra le schegge d’osso, e una cascata di frammenti di vetro a tappezzare ogni angolo di prima linea, resti delle bottiglie di grappa con cui entrambi i contendenti stordivano le truppe prima di spedirle al massacro in campo aperto. No zio Attilio: almeno una delle tue conoscenze non è andata perduta. Continuerò la tua opera sino alla fine. Ma non più come accadde a te per sfuggire alla fame. Il “gioco” di trent’anni prima è divenuto qualcos ‘altro: salvare quello che ancora oggi campi di battaglia, trincee, gallerie, buche solitarie restituiscono dell’immane bagno di sangue che ci fu in Europa dal 1914 al 1918, in memoria di tutti coloro che non sono tornati a casa, da una parte e dall’altra e che in buona parte riposano ancora insepolti anche e soprattutto tra le montagne del Bellunese. Perché anche l’oggetto più piccolo ritorni alla luce, riprenda vita sotto le mie mani durante il restauro e approdi nella sicurezza di un museo, raccontando storie di eroismi e viltà ma, soprattutto, le sofferenze di tante persone comuni, protagoniste di una tragedia in cui mai avevano chiesto una parte.
Caro zio, le tue lezione su scoli piovani, frane e smottamenti, cambi di vegetazione e radici lungo i pendii sono state assimilate e messe a frutto. Una parte di te, corre ancora fra le rocce e i ghiaioni, alla ricerca dell’improbabile pronto a tramutarsi in realtà. Quella che ha forgiato il mio spirito. Lo spirito di Pietro Gai, l’ultimo dei recuperanti tradizionali.

Cancro Amore e Rock & Roll

di Piscedda Patrizia – Cagliari, Prima Classificata

Siamo sempre pronti a provare dolore e compassione per le disgrazie altrui e inconsciamente crediamo cha alcune di esse non ci toccheranno mai. Quando poi la malattia giunge senza alcun preavviso, la senti invadere il tuo corpo che non è più tuo, la senti prendersi tutto, senza possibilità di sconto alcuno.
Per aver espresso, attraverso una scrittura volutamente scomposta ed un linguaggio crudo e tagliente, il dramma della “spersonalizzazione” del malato di cancro considerato soltanto un corpo malato che non ha più alcuna funzione sociale, e per aver reso tangibile, attraverso un lavoro di scavo interiore non avulso dalla necessità di vivere di getto le proprie emozioni ed istinti, anche i più elementari, la scissione radicale tra psiche e soma quando il tuo corpo, pur non appartenendoti più, decide per te.
Premessa
Premetto che quanto leggerete corrisponde a verità nuda e cruda. Oltre che ad avere annotato in un anno di Oncologia oltre 800 appunti estemporanei su pezzi di carta riciclati, tovagliolini scottex, ecc, altro non ho fatto che assemblare le pagine; rileggendole in assoluto una sola volta, per carità… non ho prestato attenzione alla forma e all’espressione, ho scritto come pensavo.
I vocaboli erano limitati: bianco, nero, grigio, pochi…
Certo potevo migliorarlo, qualche conoscenza l’avrei pure ma le immagini, la realtà di fronte a me era irregolare, angolare, in bianco e nero. Più nero.
Lascio perciò l’autenticità di quanto ho pensato; scritto. Voluto.
In fondo non sono una scrittrice.
L’ispirazione me l’ha trasmessa inconsapevolmente una scrittrice, Monica Aschieri, con il racconto “Amori virtuali”.
Non so se ci sarà il tempo di vedere pubblicato questa sorta di libro, nel caso, va bene anche così, è stato, nonostante tutto, bello comunque…
Ho voluto parlare dei miei figlioletti non parlandone, dei 7 flaconi killer per volta, della chemioterapia, corrosiva, che, con la fuoriuscita del condotto venoso, provoca necrosi dei tessuti circostanti e delle ossa e che il corpo deve metabolizzare in oltre un anno dall’ultimo litro.
Senza citare farmaci aggiuntivi a tutte le ore del giorno e per non parlare dell’immunodepressione, che ti tiene in ostaggio per poi illuderti che tutto sia finito, mentre tutto sta invece iniziando, e lo ignori.
Se basta un mal di testa, una colica per scatenare l’apocalisse, a sconvolgerti l’ordine di una giornata, la chemioterapia fa precipitare il mondo, l’universo intero.
Ho scritto, voluto parlare della passione che travolge e stravolge, dell’amore, l’atto più generoso e più sofferto, che alla “fine” altro non è che un incontro.. e non si sa perché.
Ho voluto parlare di una malattia, il cancro, molto brutta. In assoluto c’è altro…c’è lo struggimento, da malati, di perdere qualcuno non malato… in confronto è un granello di sabbia. Il cancro è spersonalizzante, è degradante, è muto. Non devi urlare, non devi disturbare, e ti toglie il domani, l’oggi, nell’esistenza e nell’insistenza, senza pietà.
Lasciandoti in un rantolo del divenire. Sotto lo sguardo della gente, delle istituzioni, della legge, riducendoti, spoglia, ad una “cosa” senza sesso, sentimenti e sogni. Nuda sotto gli occhi distratti di tutti.
Centro Commerciale
Emmezeta
Tornavamo dal centro commerciale, Imma, Tere e io.
A radio accesa si rideva per i soldi spese in cose sciocche… per gli occhiali non conteggiati alla cassa, Tere li teneva, a cerchietto, in testa… Eravamo felici… come Thelma e Louise… da principesse che eravamo diventammo zucche senza denaro e senza marito!
Loro avevano abbandonato, io abbandonata, ma, trascorso il periodo di
angoscia,
smarrimento,
confusione,
tristezza,
insicurezza,
disistima e autocommiserazione per il marito “assassino”avevo”quasi” smesso di piangere e raggiunto, planando, la libertà!
Con euforia descrivo la mia nuova conoscenza, Max, ingegnere, ufficiale della Marina,
di anni 37, aria esotica, carnagione bruna, sorriso durbans, occhi neri e brillanti come le perle e il sangue di uno zingaro impetuoso
… e a ridere…
gli rifili un bel pacco” dice Tere.
“E perché”
“Pat, ma lui sa che hai due figli?”
“E che importanza ha? –dice Imma- Basta non dirlo!”
“Giusto!” dico io… e a ridere…
“Imma ma ti immagini, ora che ho smesso il “lutto” e sono risorta domani vado in ospedale e mi dicono”Gentile signora spenga i suoi fuochi ardenti… lei ha il cancro…”
“Non ti preoccupare – dice Tere – con l’ufficiale gentiluomo ti sostituisco io … e a ridere…

Max, l’ufficiale gentiluomo
Max lo incontrai durante l’estate, per caso, ad una festa, ma prima di quel dì’, lo incontrai nelle mie fantasie e nei sogni. Fin dall’asilo, le elementari, e a pensarci bene, anche alle superiori.
E nelle descrizioni dell’uomo ideale, creato a tavolino per gioco con le amiche.
Disse molto poco di se, ma capii molto.
Capii che doveva essere una persona colta e doveva avere una istruzione elevata in quanto interveniva sempre ma brevemente toccando il centro del discorso. A cena, quando taceva, il silenzio diventava una piccola sinfonia composta dai delicati suoni delle posate.
Lui non allontanava mai lo sguardo da me. Mi incuriosiva il suo sorriso che mi abbagliava come un cobra. Presa dall’emozione, nel chiedermi un appuntamento, glielo diedi in Piazza Tristani esattamente vicino a due bidoni verdi della spazzatura.
“Ne sei sicura? In Piazza Tristani, vicino ai cassonetti?”
“Si, si… quelli veri”
E lo aspettai là. Andammo a cena.
Io di fronte al cobra, il cobra di fronte a me. Separati solo dalla saliera. Non ci potevo credere…
L’emozione era così forte che viaggiavo immersa nell’oceano dei suoi gradi e dei suoi occhi senza riuscire mai a comporre una frase.
Fuoco fuoco, mi scotto…
Pat
Ieri mi hanno detto che forse ho un cancro… ma io non ci credo…
Qualche volta mi ero chiesta cosa avrei provato, o cosa avranno provato gli altri, nel sentirsi dire che si ha un mare incurabile.
Ospedale Brotzu
Andai per caso, per gioco, per curiosità, dal Dottor Chicco Boi, senologo, al Brotzu. Dopo avermi visitata, ringraziai per la gentilezza e mi rivestii.
La “consulenza” al mio seno… mi era sembrata abbastanza lunga.
Inoltre mi invitò ad accomodarmi e a trattenermi. “Chiama a casa Pat, dì che ti trattieni”.
Carino questo dottor Boi… audace il dottor Boi… presuntuoso il dottore… erano ormai le tredici e mi sembrava un autentico invito a pranzo.
Mi lusingava comunque quell’invito, frainteso… infatti non pranzai più per un anno.
“E’ importante Pat, telefona per la bimba, manda qualcuno a prenderla”.
Chiama per telefono la dottoressa Addis e in un lampo sono di fronte a me, le palme delle mani cominciano a bagnarsi, sento gocce di sudore scendere lungo la schiena… i primi brividi.
Un attimo di silenzio e mi dicono qualcosa e già non ho più il controllo del respiro e dei muscoli.
Tremo tutta, i denti, le arcate battono tra loro, non capisco, non sento le loro voci.
Loro capiscono che non capisco.
Comprendo solo le loro espressioni, i loro occhi … e mi abbracciano.
“noooo”.
Capisco la gravità vedendo arrivare uno psicologo.
Capisco che il mio seno, dopo la felicità che mi aveva sempre procurato, fatto di sogni e di sguardi, si stava riducendo in panna montata…
E’ lì che imploro Dio, appeso alla parete alle loro spalle.
… ma non bastò
Il mio ambizioso sogno di “sicurezza”, fatto di progressi, di uomini leggeri che ti sorridono per mezzo video dai pianeti, si interrompe. SI spezza l’illusione come un’alluvione, il sogno di sognare la vita.
Straripato il presente, il passato, il futuro.
Disarmata, confusa, tra sogno e realtà Ed eccoti in un giorno qualsiasi faccia a faccia con la grande legge dell’Universo.
Sogno confuso con la realtà, realtà confusa con il sogno.
Ecco di fronte a te la morte, ignorata, respinta, quasi estranea alla vita, avendola scordata a lungo e con la vita forma una coppia indissolubile.
Niente più obbedisce alle visioni ideali, sognati nell’uomo.
Ma è stato qualche giorno fa, o tanto tempo fa, o milioni di anni luce fa?
Che con la mia ritrovata identità planavo per i cieli azzurri di Cagliari?
Stronzo Bastardo Assassino Carcinoma
Chissà quale spirito guidò me e la mia auto dal Brotzu al giardino di casa mia, avevo tanta voglia di urlare, ma nel mio palazzo vige il perbenismo, giudici avvocati e magistrati.
Sembra un palazzo di giustizia.
Inoltre mi condiziona una recente discussione avuta con il mio ex, a proposito del fatto che anche nel dolore ci debba essere contegno e dignità. Discutemmo a proposito di una scelta del suo film, Arcipelaghi.
Io a Giammarco, “Perché la madre del bambino ucciso non esterna il suo dolore?”
“Cioè?”
“Perché piange in silenzio, Gian?”
“Anche nel dolore Pat ci vuole contegno.”
Ma che cazzo, io voglio urlare!!!
Stronzo, Bastardo, farabutto carcinoma assassino!
Ah, per la dignità dovrei chiudere gli occhi e sopprimere il cuore?! Devo essere una presenza umana discreta? Ma io voglio urlare…
“No Pat –mi dico- aspetta, rifletti, forse non è gradito al palazzo…”
Ma come, io voglio urlare?!
E cos’è? In questa cosiddetta civilizzazione è demodè urlare? La ragione deve prevalere sul sentimento? Ma che mi importa del palazzo?! E che mi importa di Gian? E che cazzo mi importa della “sua” città milanese tanto civilizzata? Delle sue teorie… ma il cuore dell’uomo non è dappertutto uguale?
E io chi sono? Sono sempre stata fiera della differenza, delle mie origini. Delle nostre usanze. Le sento ancora quelle urla, quei pianti di madri, di figli, di fratelli che urlano il loro cordoglio, che si battono il petto in segno di disperazione, anche per una banale malattia, per una frattura un arto o due sberle. Le vedo ancora accasciarsi in terra.
Che reazione dovrei avere io davanti a questa notizia?! Ok, ho in mano tutti gli elementi che mi riconducono alle radici del nostro essere. Chiudo i finestrini dell’auto. Ormai è deciso. Urlerò! Mi guardo intorno. Ma come sempre, nella vita, ascolti il tuo istinto e fai esattamente il contrario. In fondo l’eroismo non ha volto. Urlo… piano…
A urlo concluso, sempre dall’interno dell’auto telefono ad amici e parenti. Informo sull’ipotetico carcinoma. Non so cosa sia veramente, ma lo associo più o meno a una medusa, ho una sensazione di orrore. Un’ora dopo e 25 euro di credito telefonico in meno, sono disperata e l’ansia e la disperazione aumentano… Sembra la favola al lupo al lupo. Nessuno arrivò. Rimasi sola, disperata e anche “screditata”… ora si che urlo veramente.
Esami clinici
Le mie amiche Tere, Imma, e Max mi stavano abbastanza vicino, nell’attesa degli esami clinici. Era un incubo.
Era come se il corpo e la testa ruotassero in senso opposto, accompagnati da un senso di nausea… venivo in quella terribile attesa informata che il carcinoma non è assolutamente associabile a una medusa che brucia, e anche se ustionasse non sarebbe paragonabile a un tumore vero.
Un tumore dentro me?
“Si sbagliano Pat - mi dicevano tutti – vedrai che non è così, i medici esagerano”.
Mi aggrappavo alla possibilità dell’errore, come il chirurgo mi disse:
“Potrei sbagliarmi cara…”
Queste erano le sue parole, si, ma l’espressione mi diceva altro e anche i loro abbracci.
E anche la mobilitazione del reparto chirurgia, infermieri compresi.
Ne ebbi la certezza al terzo giorno di analisi in corso, quando ritardai di mezz’ora per fare il marcatore tumorale.
Li trovai nell’atrio ad attendermi fortemente preoccupati facendo segno di disapprovazione senza sgridarmi e un attimo dopo abbracciarmi in segno di solidarietà.
Li, in un istante caddero tutte le speranze di una possibilità di errore.
C’era scritto sulle loro facce, in quegli abbracci, fatti con il cuore più che con le braccia stesse.
Loro erano i chirurghi ma anche i miei amici.
La dottoressa Addis mi aiutò a stendermi in quel l.ettino gelido, il cui acciaio risuonava del panico del mio corpo ridotto a brividi, perché il mio corpo tremava.
Mi sollevò la manica del braccio destro ed io lo consegnai con disperazione, come lo si consegna ad Alcatraz, o come se avessero dovuto amputarlo.
Quel prelievo avrebbe rivelato, segnato o forse tolto l’esistenza mia e dei miei bambini.
“E’ un incubo vi prego svegliatemi” dissi al dottore con la siringa in mano.
“Per favore mi svegli la supplico”.
“mi spiace…”
1° Ricovero
Non riesco a dormire. Nessuno dorme. le luci sono spente. Il silenzio mi crea angoscia.
Ci sono cose in piena luce come il mio tumore, altre in piena ombra, altre immerse nella più totale oscurità del buio, che è domani.
Affronto la notte con non poca ansia e paura.
A ogni ticchettio dell’orologio esprimo un desiderio per i miei figlioletti, la mia mano destra tiene il mio seno sinistro traditore. Non so se amarlo o odiarlo. So che è ancora mio.
Come è proprio, un figlio colpevole, un fratello forse assassino, ma lo ami, lo ami comunque.
Forse anche di più, cerchi attenuanti, vendi, paghi, lo vuoi, lo ami come non mai. Lo vuoi.
Forse non lo toccherò mai più.
Tra qualche ora mi operano. Ho tanta paura come non mai.
Intervento
Ore 7.
Sento mobilitazione nel reparto, sento che parlano di me, sento la barella avvicinarsi. Riconosco le voci dei miei medici e conversazioni telefoniche.
Sento che parlano di un’estemporanea.
No so cosa sia, di certo, non può essere di arte ne di scultura o di pittura.
Più probabile di bisturi.
Hanno anticipato l’intervento di un’ora e nessuno può tenermi la mano.
Ancora non posso credere di avere un tumore, di potermi svegliare senza un seno, mutilata.
Mi portano in sala operatoria, nuda, coperta da un telo verde e da uno bianco.
Ho freddo e tremo. Le arcate dei denti battono fortissimo. Ho paura che si spezzino i denti…
Una paura totale e invincibile si impadronisce di me.
Vorrebbero che Max mi stesse accanto. Lo chiamano, è già in reparto con le mie numerose amiche. Medici e infermieri mi accarezzano la fronte, cuore… L’anestesista e l’aiuto mi tranquillizzano verbalmente.
Mi fanno la preanestesia, mi informano che è arrivato Max. E’ fuori dalla porta.
Mi fanno la sua descrizione, ha un giornale in mano ed è vestito di blu.
E io penso blu come il cielo, blu come il quadro della Rossi, blu come il mare, blu come gli occhi di mio padre, David blu, blu… come gli occhi di Greca che mi accarezza. Prenderà parte all’intervento.
Ore 16
Sento ripetutamente il mio nome, con voci diverse, maschili e femminili.
Patrizia, tesoro, Pat… Patty.
Mi sembra di riconoscere la voce di Max, di greca e dei miei medici.
Per una frazione di secondo apro gli occhi, riconosco quelli di Max, li sento posarsi su i miei.
Capisco che sono nella sala antistante a quella operatoria.
Non posso muovermi ho tubi dappertutto. Mi accorgo di avere un incisivo spezzato e piango un po’.
Ci sono tutti i miei amici e parenti.
Li guardo in silenzio tutti, uno per uno. Abbozzo un sorriso. Lo abbozzano anche loro.
Chiedo spiegazioni per il dente…
“Chi mi ha rotto il dente? Perché è rotto? Ho avuto un incidente?” chiedo a Max. “ero con e Max?” Nessuno risponde. Dispiaciuta per il dente ignoro tutte le persone, gli aghi,, le flebo, i tubi e vado in escandescenze.
“Il dente Greca perché? Chi mi ha rotto il dente?”
“Non preoccuparti per il dente, Pat, si può incapsulare..”
Infierisco su di lei quasi ritenendola responsabile…
“Ma che ci faccio qua? Greca perché sono qua? Cosa mi è successo Greca!”
Cerco conferma nei loro volti.
“Sta calma Pat..”
All’improvviso un silenzio tombale nella camera, ed escono tutti…
Come un flash ricordo tutto, la sala operatoria, il tumore al seno, è il momento della verità.
“Mio Dio, no….”
Sono terrorizzata.
Ho voglia di urlare, ma non riesco ad emettere suoni…
“No, greca, no…no Max, no aiuto.”
Camminando all’indietro, Greca si allontana da me, vedo il suo viso terrorizzato quanto il mio, Max rimane vicino a me.
Mi tiene la mano e la fronte.
Sento attraverso la porta socchiusa il pianto di Greca, e dei miei amici.
Gli occhi di Max incrociano i miei, si guardano ma poi i suoi si abbassano lentamente.
Non sono più di perla ma diventano di sabbia, non luccicano più.
Capisco tutto.
Appoggia il viso sul mio.
Non riesco a respirare. Sento il suo cuore battere nel mio petto.
Il TIR IVECO ritorna. Sempre più grande. Non ho la forza di urlare, sento un coltello che recide la mia giugulare, una corda che mi stringe il collo, non respiro.
Max consegna la mia mano a Greca che rientra.
Entra casualmente, fatalmente, disgraziatamente, un medico quasi in contemporanea al ritorno di Max, che è oltre un metro dietro di lui; faccio a tempo a chiedere al medico cosa mi era successo.
“Hai un cancro, cancro maligno , secondo grado di malignità”.
Max cerca di fare barriera con le mani al mio udito.
“Noooooooooooo “. E’ sconvolto quanto me. Mi bacia gli occhi. Continua a farmi da barriera per non udire oltre.
“Max, nooo, aiuto, no”
Mi sento morire, preferirei morire. Sento il cuore sfondare la cassa toracica.
“No Max, Greca nooo. Per favore no!”
Max ignorando la presenza di colui che mi aveva dato la crudele sentenza, chiede a voce alta un Medico, “Per favore chiamate un medico, subito!”
Informati, arrivano di corsa i miei angeli salvatori, il Dottor Boi, e la Dottoressa Addis.
Mi abbracciano, si dispiacciono anche loro per come ho appreso la notizia. Mi fanno un elettrocardiogramma d’urgenza, mi danno il valium, mi mandano una psicologa.
“No Dio pietà, no ti prego… ditemi che sto sognando, non mi piace questo sogno, vi supplico svegliatemi. Il cancro no, non è vero, ditemi che non è vero, vi supplico.
Come faccio stanotte, dimmelo ti prego”
“Ti regalo i miei occhi non avere paura..”
Max mi bacia gli occhi.
“Mi spiace tesoro…”
Pietà
Ma Dio dove era ora?
E le ali? Le mie ali dove sono adesso?
Forse sono attaccate alle pareti, come i miei sogni, sono qua, in questi corridoi apparentemente silenziosi, ma urlano, urlano pietà.
Il testamento di Lori
Lori, una mia amica, ex compagna di scuola, è ricoverata nella camera a fianco, sta male, molto male, per lei non ci saranno più stagioni, né vita.
Lucidamente implorava da giorni, fino alla mezzanotte di oggi, di voler tornare a casa, dai suoi cari, dal marito, dalla sua bambina.
Urlava il nome del marito, Mauro, ma lui non c’era. Nessuno c’era. Le sue urla uscivano dalla camera, entravano nelle altre, nei corridoi.
Muoveva la mano in gesti impotenti che ricadevano subito da ciò che aveva afferrato nell’aria.
Urla di delusione, di terrore, di paura, per il mondo che lasciava alla sua bambina.
Tutto mi riporta al pensiero della modernità, a questa inversione di tendenza. Nulla nega il diffondersi di modelli nuovi di sentimenti, di cui ci serviamo a tasti, nel momento in cui riteniamo di volerli prendere, spazzando via a questo modo, la coscienza, delegandola esclusivamente ai medici e servendoci fedelmente della legge, e non delle fedeltà dell’uomo.
Chiedendo, nascosti fra le ipocrite lacrime e preghiere, e tutto si confonde con le leggi, ai medici di salvare la persona, di continuare le terapie, e poco importa se ogni ragionevole speranza è scomparsa in contemporanea alle richieste imploranti di Lori di tornare a casa.
La morte è anti sociale e questa è la prima vittima, prima dell’uomo stesso, perché diventa la “morte” stessa vergogna.
Si uccide così prima la “morte” della “morte” stessa, nascosta da un volto extraterritoriale e non hai più posto se non in un ambiente tecnico, al quale si incarica e si scarica, sconsacrandola.
Il paziente apparentemente scompare dalla vita dei “cari” ancor prima che ci abbia lasciato, si “muore” nascosti. Il testamento di Lori era di tornare a casa sua.
Già, tutti i testamenti hanno un valore, un proprio valore, ma non questo. Lori ormai no conta più niente. Chi, a questo punto, deve rispettare la persona umana, le sue ultime volontà? Perché trasferiscono la coscienza a una cannula di flebo, ai medici?
Cosa nasconde questa fermezza dei “cari” parenti a non volersi chinare all’imminente morte?
Perché questa diventa più importante della vita?
Ore 6 dl mattino. Impossibile dormire. Lori viene portata via. Nel viaggio degli inganni.
Ho visto passare la perdita di una vita che “urlava” pietà.
E il testamento di lori? E le parole di Lori ? E le sue paure?
Chi deve fare rispettare queste ultime volontà?
Le sue paure del consapevole passaggio e distacco?
I suoi interlocutori sono diventati la signora delle pulizie, gli infermieri, i medici.
A loro confidava, esprimeva le sue paure, e con rispetto veniva ascoltata. I parenti rispettavano gli orari delle visite 13.00-14.00, 18.00-19.00.
Se sarà “fortunata” troverà una infermiera che le terrà la mano senza conoscerne neanche il nome.
Dietro un separè verde ma potrebbe essere più “fortunata” ed avere una camera singola, “riservata”. E il testamento di Lori? La sua richiesta non contiene niente, né denaro, ne mobili né immobili, ma solo paura, dolore e amore, null’altro. Lori non tornerà a casa. Un corpo malato è un marchio, un fallimento familiare. Non ha funzioni sociali. Si affida all’oggettivazione del corpo e discriminazione dell’anima. Ma poco fa ha sorriso ugualmente, a un metro da me, da tutti noi.
Uno dei medici invitava ripetutamente i familiari a prendere parte al “passaggio”, l’altro accarezza Lori stremata, è impaurita. Al suo dramma si aggiunge un nuovo moderno universo familiare, probabilmente a lei sconosciuto.
Il loro abbandono morale. Ma Lori non ci crede ancora, ancora abbozza sorrisi, ma forse di gratitudine. Vediamo l’angoscia di infermieri e medici, nel farle le ultime carezze. Il medico è biondo e a Lori deve esserle sembrato un angelo. Un Dio. Non so, potrebbe esserle sembrato anche Mauro, il marito assente… O forse un prato di fiori.
Inizio chemioterapia
“No, per favore no, vi prego, no – urlo- Dio dove sei? Cosa stai facendo? Pietà, Dio, scendi giù, hai capito? Devi scendere… Per favore, dottore iniziamo domani… oggi non me la sento”
“No dobbiamo iniziare oggi, non puoi più scegliere…. Il cancro non aspetta, devi farlo”…
Do il braccio, mi infilano la cannula, innestano la flebo, scende il primo dei sette litri.
Il mio corpo non è più il mio. E’ suo. La mia vita non è più mia. La mia mente già non mi appartiene. Secondo litro. C’è un kamikaze dentro il mio corpo, c’è un esplosione, nessuno mai potrà spiegarlo, tremo, ho freddo, le arcate dei denti battono, ho nausea.
Cinque ora dopo i medici mi accarezzano e mi asciugano la fronte per l’ultimo litro.
“Max voglio morire. Uccidimi…”
La in quel letto la mia vita mi lasciò, il mio corpo mi lasciò. I vomiti si sincronizzarono alle pulsazioni del mio cuore, ai battiti cardiaci. Qualche giorno dopo la dottoressa Marina, trovandomi in lacrime, mi dà dei consigli. Mi indica attraverso una parete divisoria alcuni pazienti dell’ematologia… “Vedi quelle – mio dice- sono depresse… si sono lasciate schiacciare, tu vuoi diventare così?§ Rimarrai sola Patrizia, non mi pare una buona idea… scegli tu per te. Devi cercare soddisfazione nelle cose che hai, non in quelle che ti mancano. C’è tempo.”
Mi abbraccia “La lotta inizia adesso ma potrebbe concludersi con una vittoria, che sia per un anno, per due anni, chi lo sa. Ancora non è stato giocato tutto, Patrizia. Non pensare alla verità come una sentenza definitiva, l’unica scelta è battersi sotto il segno della speranza. Sarà un prova dura e penosa. La lotta cancro il cancro esige un coraggio sovraumano, ma il sogno è ancora possibile.” . Guardo l’immensità e la bellezza della dottoressa Marina mentre si allontana, lasciandomi un permesso firmato per due giorni.
In auto”Max non respiro, l’aria è pesante.”
Mi guarda, ride, mi accarezza le labbra con le dita.
Il semaforo è rosso. Mi accarezza il viso… eee sfiora le labbra sulle mie. O mio Dio, mi trema il cuore. Il sogno si corona al semaforo. Semaforo profeziatore.
“Mai amato il semaforo rosso tesoro”
E a ridere felici, con il chewing gum in bocca e nausea in stand by, come due turisti n vacanza.
Il semaforo splende di nuovo, luccica, rosso rubino, rosso incantesimo. Unica testimonianza del miracolo. Mi riabbassa la mascherina eee… mi bacia, un bacio quasi vero… saporito, alla menta.
Mi tremano le mani. Le labbra idem. Aiuto!
“La fortuna mi ha baciato oggi”.
“Anche io Max ti ho baciato!”
“No tu no! Ma dato che il semaforo ora è verde eee.. annuncia il rosso… eee tra non molto ti bacerò ancora… e tu tesoro… dovrai concentrarti… abbassare gli occhi e adagiare… la …”
“La …cosa Max?”
“La tua lingua… sulla mia tesoro…”
“Ah, ok”
“Ok, siamo intesi, ti ricordi tutto?”
Altrochè penso, e quando si potrà ripetere un abbaglio simile?
Mi riabbassa la mascherina…. Ci guardiamo negli occhi a lungo… eeee ci suonano i clacson delle auto, e a ridere. Il tempo ci è scappato di bocca!E’ verde… verde speranza. Torna il rosso splendente… rosso rubino… eee SMACK…. Incantesimo! Un bacio vero, stellare. Il primo!

Eeeee a ridere
W la vita!
W il sogno!
W la speranza!
Vento nel vento
Addio
E’ trascorso qualche mese, con molta fatica mi adatto al nuovo vivere. Non riesco a riprendermi, ho tremori al corpo. Ho nausea, capogiri, vertigini, vomito in continuazione. Per me hanno scelto i farmaci. Ha scelto il mio corpo che amavo, ora traditore. Vivo perdendone ogni giorno la padronanza.
Come un’offesa alla mia dignità. Mi sento una cosa senza sesso, sogni e senza sentimento. Il cancro, il delirio la follia erano in me con violenza e senza compassione. La violenta verità sul mio stato di salute e l’angosciante attesa della probabile quasi certa recidività di metastasi aveva avuto pesanti ripercussioni psichiche, in aggiunta a quelle fisiche.
Se, lo ripeto, un mal di testa, una colica può far precipitare il mondo, se può stravolgere l’ordine di una giornata, se basta così poco, la chemioterapia, la verità fa precipitare l’universo, il mondo intero.
A tutto questo si aggiunge, arriva un’esplosione di nuovi sentimenti, di collera, ribellione contro Dio onnipotente. Contro il destino crudele. Ma di questo non possiamo impadronirci e allora ci si indirizza verso i meno pericolosi, amati amici, amati fratelli, amato Max.
Ormai avevo deciso. In preda al dolore alla paura, nessuno poteva ormai più aiutarmi.
In preda alla follia racconto a Max un mare, un oceano di bugie. Volevo, decisi al momento di volere il suo odio, lo stesso che provavo per la mia malattia, il cancro.
Era deciso. Non so dove inizi e dove finisca la saggezza. L’espressione di impotenza e di vuoto e nel vuoto, era davanti a me, per la prima volta sul viso di Max. E per la prima volta mi chiamo Pat.
“Pat sono stanco, confuso, non so più cosa fare”
“Si, è giusto… Max.. No, no, no, non è giusto.”
“No Max aspetta!”
“E’ stato bello Max”
non bastarono gli influssi del sole e le suggestioni celesti
Nooo Max, ti prego perdonami.
Una fitta mi trapassò il cuore, mi trapassò il cervello, come non mai. Mai.
Avevo perso un pezzo di vita. L’ultimo.
Uno struggimento furono i giorni e i mesi successivi.
L’assenza della sua voce, il calore avvolgente delle sue braccia.
Questa è la cronaca di tre presenze, io, lui, il cancro.
Che si trovano, si mancano, in un mare e oceano di incertezze, paure e cercano di resistere con tenacia, cercando transito in un paradiso che sta dentro l’inferno.
E la vera sconfitta è restarci.
Per questo l’ho voluto raccontare.
Grazie Max, ufficiale gentiluomo per avermi tenuta “in braccio” tutte le volte che stavo per cadere, perché dal vuoto non ci si salva.
Grazie Max, che Dio ti illumini e ti assista come tu hai assistito me.
Con infinita riconoscenza Patrizia.

Come un buco nero

di Ingemi Andrea - Messina, Premio Speciale ACM

La lontananza della persona amata può lasciare un vuoto enorme e difficilmente colmabile soprattutto se si è vissuto una intensa storia d’amore.

Come un buco nero
nell’universo,
lasciato
da una stella morente.
La tua lontananza
ha lasciato
un vuoto nella
mia esistenza
e nulla
potrà mai colmarlo
perché
già pieno di te.

Le Aquile Calve

di Muscetta Giuseppe - Oriolo (CS), Terzo Classificato

Quando un amore finisce è inutile cercare di ricomporne i pezzi. Un rapporto in caduta verticale è come quello delle aquile calve che si amano in volo e scendono giù, verso terra, separandosi prima di toccarla.
Per aver espresso con originale metafora quanto l’amore, a volte, duri lo spazio di un volo.

Solo lo spazio di un volo per amarsi,
è troppo prossima la terra
in caduta verticale!
Sogno che si spegne
Immediato si accende tra i ricordi,
come luce di lucciola nelle notti di maggio,
temporale d’estate
che passa e non t’accorgi,
sfumato nei colori del tramonto,
è consumarsi inutile
misurare spessori immaginati
lucidare catene spezzate
rivisitare pellicole stracche:
quando il grigio giunge, spuntano le ali
a desideri appannati sotto ceneri d’amore.
Smarriscono vacui viaggi per l’etere
Ed ora nel cuore della notte
Tra i corridoi dell’essere
Continui a cercare il giorno,
il centro di te stesso
… in altri,
mentre la vita in orizzontale
si sposta verso omega!
E più s’avanza, più basse volano
le aquile calve!

Inchiostro bianco

di Affinito Michela Isabella - Fiuggi (FR), Seconda Classificata

Raccontarsi senza farsi leggere. Ciò basta allo spirito del poeta che, in “autoanalisi”, imprime come sul negativo di una pellicola i segnali della coscienza. Inchiostro bianco su fondo nero, per il momento, quella da scrivere è la storia dell’anima… Inchiostro bianco che a volte, nei momenti più bui, durante i quali aumenta il desiderio di riempirsi di luce, manca.
Per aver espresso la comune difficoltà del poeta di raccontarsi a parole, la necessità di scrivere solo per se stessi e la difficoltà che a volte si trova a mettere…bianco su nero.

Quello che
non riesco a dire lo
scriverò con l’inchiostro
bianco su fogli neri
realtà capovolta del
mio spirituale.
Inchiostro niveo
per la coscienza che
vuole raccontarsi e
non farsi leggere, forse
col tempo diventerà
nero per gli ultimi
fogli rimasti vuoti.
Il microcosmo interno
è un quaderno senza
pagine, mi metto a
scrivere sui papiri
dell’anima una storia
riesumata senza sforzo,
ma adesso mi manca il
bianco inchiostro
per lasciare nel buio
il desiderio di stelle

Quando ricorderai

di Cappelloni Gastone - S. A. in Vado (PU), Primo Classificato

Il percorso della memoria porta l’uomo a mettere in discussione le proprie certezze. Ma, circoscritto all’interno di una realtà limitante, egli riesce ad uscirne fuori solo attraverso gesti estremi.
Per aver espresso, con un uso sapiente delle regole di metrica e di retorica, il disagio di chi è schiacciato dalla consuetudine.

Quando ricorderai
perduti profumi
saggiamente
saprai scorgere
le tue fragili sicurezze,
lasciandoti andare
a disegnati limiti
cercherai
nella decisione finale,
l’estrema presenza.

Premio Agorà 2005

Sezione Poesia a tema libero
Primo Classificato: Cappelloni Gastone - S. A. in Vado (PU) con "Quando ricorderai"
Seconda Classificata: Affinito Michela Isabella - Fiuggi (FR) con "Inchiostro bianco"
Terzo Classificato: Muscetta Giuseppe - Oriolo (CS) con "Le Aquile Calve"
Premio Speciale ACM: Ingemi Andrea - Messina con "Come un buco nero"

Sezione Racconti
Prima Classificata: Piscedda Patrizia – Cagliari con "Cancro Amore e Rock & Roll"
Secondo Classificato: Gai Pietro - Feltre (BL) con "Recuperante"
Terzo Classificato: Rovini Maurizio - Pisa con "25 Euro niente più"

Sezione I Conti Corti
Primo Classificato: Petruzziello Carla di Salerno con "Rosso brillante"
Seconda Classificata: Perricone Carmen - Siracusa con "La ruga che indossi"
Terzo Classificato: Romano Salvatore di Augusta con "Solidarietà rifiutata palazzo di giustizia, secondo livello"

Sezione Nuovi linguaggi della poesia
Primo Classificato: Cappelloni Gastone - S.A. in Vado (PU) con "Misurare o rinvangare"
Secondo Classificato: Mendola Giuseppe Augusta con "Cospargi i tuoi Sali"



Rassegna Stampa