12/10/05

25 Euro niente più

di Rovini Maurizio - Pisa, Terzo Classificato

Il duro tran-tran quotidiano mal si sopporta, soprattutto se c’è il desiderio forte di uscire dall’anonimato, desiderio frustrato da una condizione di necessità. Non potendo uscir fuori dalla mediocrità, ci si trova spesso a sognare la vincita importante che diventi anche un modo di rivalersi sulla propria condizione attuale. Nulla vieta di sognare, ma i sogni restano pur sempre sogni e per tirarsi su c’è bisogno di gratificazioni possibili, magari sperando solo che finalmente torni a splendere il sole…
Per aver rappresentato uno spaccato della società contemporanea, mettendo in evidenza quanto possa essere alienante la condizione di un uomo insoddisfatto del proprio lavoro e della propria esistenza, poiché al suo legittimo desiderio di emergere corrisponde invece il suo essere uno fra tanti.

Grigio l’orizzonte dietro la finestra, nubi nella pioggia mattutina, lenta e inesorabile.
Capelli sbandati, coperte alzate, freddo invadente che desta i sogni rimasti.
Era il mattino ricorrente, lo svegliarsi dal sonno interrotto al grido della sveglia, di quel mostruoso oggetto che odiavo più di ogni cosa sulla terra, come se fosse lei la fonte dei miei guai.
Tardavo qualche istante, ogni mattina, ad osservare il vetro appannato della finestra meditando sui miei guai, per destarmi nuovamente, sospirando, e constatare che ero in ritardo.
La mia giovane età spazzata via dal bisogno di lavoro, con i libri sul tavolo aperti nei ritagli, con tanti sogni offuscati dalla moneta. Il denaro non sarà tutto nella vita, così viene detto comunemente, di certo aiuta parecchio; non avrei fatto davvero quello che facevo se ne avessi avuto almeno un po’.
Pioveva sempre laggiù, forse pioveva anche quando c’era il Sole, forse ero io che piovevo.
L’umore non era dei migliori al risveglio, la barba, il sonno insistente, i vestiti sfiniti, la vespa che non partiva.
Sempre la stessa mattina, sempre uguale. La vespa con il parabrezza rattoppato che non voleva sapere di mettersi in moto. Echi tra le case, udivo altri combattimenti feroci con mezzi come il mio, qualcuno vinceva ed altri no. Ferri vecchi da buttare, parolacce che solcavano l’aria umida, imprecazioni che facevano anche sorridere, alla fine le macchine si inchinavano all’uomo, che benché già sudato, riusciva a partire.
Il freddo dell’inverno entrava da ogni parte, dalle maniche, dalla cintura, nelle scarpe. La giacca di pelle, vera finta pelle, regalata dalla mamma a Natale non bastava; la “Gazzetta dello Sport” era il mio alleato fedele. Platini e Falcao, eroi di persone vecchie come me, mi avvolgevano nel loro caldo mantello cartaceo.
L’esercito dei “giornalai” affrontava ogni mattina il gelo, armeggiando con i fogli rosa finché, bestemmiando partiva com’era venuto.
Dopo qualche metro, i fogli inesorabilmente volavano. Io non ero da meno. Dopo qualche metro già si iniziava a battere i denti e a contare i chilometri mancanti.
La città affumicata nasceva dalla nebbia, vespe e motorini incolonnati si allineavano in silenzio schivando le auto. Ricordo i cruscotti illuminati da spie colorate che passavano veloci al mio lato, che bel tepore doveva esistere nell’abitacolo… che fortuna avevano loro, lì a caldo.
Spesso, quando la fortuna mi assisteva, mi posizionavo dietro ad un pullman che emanava un po’ di calore dal motore. I passeggeri senza sorrisi incrociavano i miei sguardi senza un saluto. Ormai li conosceva quasi tutti, il tipo delle 7,10, l’altro delle 6,30, pian piano conoscevo le loro abitudini, da dove venivano e dove scendevano.
Passerò ancora poco tempo qua dietro di voi, che cosa avete mai da ridere, maledetti che usano il pullman. Farò fortuna, mi gridavo dentro è solo per questo periodo, ripetevo.
Tutti i nostri sogni, di tutti quelli che erano con me sulla strada, confluivano al passaggio a livello del treno delle sette che era sempre in ritardo. Il tempo passava sognando; che cosa avrei fatto vincendo al Totocalcio, aspettando il treno da Firenze che non passava mai.
Tutti in quel momento, nessuno escluso, avevano quel pensiero, misto al sonno interrotto, pregno di speranza utopica, di miracolo, di beneficenza da fare quando sarò ricco.
Allora mi alzerò presto la mattina per vedere questa carovana che mestamente si reca al lavoro, li saluterò e poi tornerò nel letto, al caldo. Ogni mattina, ogni secondo, ogni rabbioso istante della vita.
Poi il treno dei pendolari passava sferragliando e portando nella vita reale i presenti, maledetto treno!
Che tristezza però, l’esser ridotti a sperare nella fortuna, il rimanere aggrappati all’esistenza per merito di tredici pallini scritti su di un foglio. Unico faro acceso nella vita legato alla Sisal.
La sirena chiama, scandisce la vita, detta il ritmo.
La fabbrica non può attendere, un pugno di nulla in fondo al mese, il padrone in Mercedes nel cortile, i servi in coda ansimanti di sfiorare il suolo dove è passato, il mondo si ripete, la storia si ripete, Vico aveva ragione. Sempre la stessa scena, in tutte le epoche.
Maledetto pezzo metallico che mi passi davanti, maledetto dado, rumore, fumo, tu che mi mangi l’esistenza, tu che mi assorbi le braccia, mangiami anche il pensiero, rendimi scemo, automa, servo muto, perché così sto male.
Non mi far ragionare, fa che sia ebete da non capire che non servo a nulla, che lo stomaco ha vinto sulla testa, fa che sia felice di stringere un dado, almeno finché una macchina non lo farà al mio posto.
Non è il lavoro quello che deprime, è il tormento che mi porto dentro nella continua smania di voler migliorare, di uscire da questa storia senza futuro, per realizzare le proprie aspirazioni.
La giornata trascorre com’è iniziata, il salario serve solo per mangiare; 25 euro, niente di più.
File di uomini stanche, dallo sguardo assente, anonimi, solcano la strada di casa pensando al turno che verrà, alle rate da pagare, al mutuo con la banca, alla scuola dei figli, al dentista, al politico disonesto che la farà franca, al professionista che non paga le tasse e ai pensieri folli di bisogno di giustizia che non c’è e mai ci sarà.
Voglio essere disonesto, ti gridi addosso, voglio sistemarmi una volta per tutte, uscire da questo letamaio, ma la strada finisce, il fiume in piena dei rabbiosi sognatori è scemato nelle loro case e i pensieri lasciano il posto alla cena.
La casa è il luogo di chi non sa osare, la spiaggia dove il Sole dei pavidi non tramonta mai, dove tutto deve rimanere così. Magari aver coraggio come la rabbia…
Un po’ di televisione e poi a letto, pensando al turno del domani, sperando che non piova di nuovo e che almeno ci sia un po’ di sole.

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