12/10/05

Cancro Amore e Rock & Roll

di Piscedda Patrizia – Cagliari, Prima Classificata

Siamo sempre pronti a provare dolore e compassione per le disgrazie altrui e inconsciamente crediamo cha alcune di esse non ci toccheranno mai. Quando poi la malattia giunge senza alcun preavviso, la senti invadere il tuo corpo che non è più tuo, la senti prendersi tutto, senza possibilità di sconto alcuno.
Per aver espresso, attraverso una scrittura volutamente scomposta ed un linguaggio crudo e tagliente, il dramma della “spersonalizzazione” del malato di cancro considerato soltanto un corpo malato che non ha più alcuna funzione sociale, e per aver reso tangibile, attraverso un lavoro di scavo interiore non avulso dalla necessità di vivere di getto le proprie emozioni ed istinti, anche i più elementari, la scissione radicale tra psiche e soma quando il tuo corpo, pur non appartenendoti più, decide per te.
Premessa
Premetto che quanto leggerete corrisponde a verità nuda e cruda. Oltre che ad avere annotato in un anno di Oncologia oltre 800 appunti estemporanei su pezzi di carta riciclati, tovagliolini scottex, ecc, altro non ho fatto che assemblare le pagine; rileggendole in assoluto una sola volta, per carità… non ho prestato attenzione alla forma e all’espressione, ho scritto come pensavo.
I vocaboli erano limitati: bianco, nero, grigio, pochi…
Certo potevo migliorarlo, qualche conoscenza l’avrei pure ma le immagini, la realtà di fronte a me era irregolare, angolare, in bianco e nero. Più nero.
Lascio perciò l’autenticità di quanto ho pensato; scritto. Voluto.
In fondo non sono una scrittrice.
L’ispirazione me l’ha trasmessa inconsapevolmente una scrittrice, Monica Aschieri, con il racconto “Amori virtuali”.
Non so se ci sarà il tempo di vedere pubblicato questa sorta di libro, nel caso, va bene anche così, è stato, nonostante tutto, bello comunque…
Ho voluto parlare dei miei figlioletti non parlandone, dei 7 flaconi killer per volta, della chemioterapia, corrosiva, che, con la fuoriuscita del condotto venoso, provoca necrosi dei tessuti circostanti e delle ossa e che il corpo deve metabolizzare in oltre un anno dall’ultimo litro.
Senza citare farmaci aggiuntivi a tutte le ore del giorno e per non parlare dell’immunodepressione, che ti tiene in ostaggio per poi illuderti che tutto sia finito, mentre tutto sta invece iniziando, e lo ignori.
Se basta un mal di testa, una colica per scatenare l’apocalisse, a sconvolgerti l’ordine di una giornata, la chemioterapia fa precipitare il mondo, l’universo intero.
Ho scritto, voluto parlare della passione che travolge e stravolge, dell’amore, l’atto più generoso e più sofferto, che alla “fine” altro non è che un incontro.. e non si sa perché.
Ho voluto parlare di una malattia, il cancro, molto brutta. In assoluto c’è altro…c’è lo struggimento, da malati, di perdere qualcuno non malato… in confronto è un granello di sabbia. Il cancro è spersonalizzante, è degradante, è muto. Non devi urlare, non devi disturbare, e ti toglie il domani, l’oggi, nell’esistenza e nell’insistenza, senza pietà.
Lasciandoti in un rantolo del divenire. Sotto lo sguardo della gente, delle istituzioni, della legge, riducendoti, spoglia, ad una “cosa” senza sesso, sentimenti e sogni. Nuda sotto gli occhi distratti di tutti.
Centro Commerciale
Emmezeta
Tornavamo dal centro commerciale, Imma, Tere e io.
A radio accesa si rideva per i soldi spese in cose sciocche… per gli occhiali non conteggiati alla cassa, Tere li teneva, a cerchietto, in testa… Eravamo felici… come Thelma e Louise… da principesse che eravamo diventammo zucche senza denaro e senza marito!
Loro avevano abbandonato, io abbandonata, ma, trascorso il periodo di
angoscia,
smarrimento,
confusione,
tristezza,
insicurezza,
disistima e autocommiserazione per il marito “assassino”avevo”quasi” smesso di piangere e raggiunto, planando, la libertà!
Con euforia descrivo la mia nuova conoscenza, Max, ingegnere, ufficiale della Marina,
di anni 37, aria esotica, carnagione bruna, sorriso durbans, occhi neri e brillanti come le perle e il sangue di uno zingaro impetuoso
… e a ridere…
gli rifili un bel pacco” dice Tere.
“E perché”
“Pat, ma lui sa che hai due figli?”
“E che importanza ha? –dice Imma- Basta non dirlo!”
“Giusto!” dico io… e a ridere…
“Imma ma ti immagini, ora che ho smesso il “lutto” e sono risorta domani vado in ospedale e mi dicono”Gentile signora spenga i suoi fuochi ardenti… lei ha il cancro…”
“Non ti preoccupare – dice Tere – con l’ufficiale gentiluomo ti sostituisco io … e a ridere…

Max, l’ufficiale gentiluomo
Max lo incontrai durante l’estate, per caso, ad una festa, ma prima di quel dì’, lo incontrai nelle mie fantasie e nei sogni. Fin dall’asilo, le elementari, e a pensarci bene, anche alle superiori.
E nelle descrizioni dell’uomo ideale, creato a tavolino per gioco con le amiche.
Disse molto poco di se, ma capii molto.
Capii che doveva essere una persona colta e doveva avere una istruzione elevata in quanto interveniva sempre ma brevemente toccando il centro del discorso. A cena, quando taceva, il silenzio diventava una piccola sinfonia composta dai delicati suoni delle posate.
Lui non allontanava mai lo sguardo da me. Mi incuriosiva il suo sorriso che mi abbagliava come un cobra. Presa dall’emozione, nel chiedermi un appuntamento, glielo diedi in Piazza Tristani esattamente vicino a due bidoni verdi della spazzatura.
“Ne sei sicura? In Piazza Tristani, vicino ai cassonetti?”
“Si, si… quelli veri”
E lo aspettai là. Andammo a cena.
Io di fronte al cobra, il cobra di fronte a me. Separati solo dalla saliera. Non ci potevo credere…
L’emozione era così forte che viaggiavo immersa nell’oceano dei suoi gradi e dei suoi occhi senza riuscire mai a comporre una frase.
Fuoco fuoco, mi scotto…
Pat
Ieri mi hanno detto che forse ho un cancro… ma io non ci credo…
Qualche volta mi ero chiesta cosa avrei provato, o cosa avranno provato gli altri, nel sentirsi dire che si ha un mare incurabile.
Ospedale Brotzu
Andai per caso, per gioco, per curiosità, dal Dottor Chicco Boi, senologo, al Brotzu. Dopo avermi visitata, ringraziai per la gentilezza e mi rivestii.
La “consulenza” al mio seno… mi era sembrata abbastanza lunga.
Inoltre mi invitò ad accomodarmi e a trattenermi. “Chiama a casa Pat, dì che ti trattieni”.
Carino questo dottor Boi… audace il dottor Boi… presuntuoso il dottore… erano ormai le tredici e mi sembrava un autentico invito a pranzo.
Mi lusingava comunque quell’invito, frainteso… infatti non pranzai più per un anno.
“E’ importante Pat, telefona per la bimba, manda qualcuno a prenderla”.
Chiama per telefono la dottoressa Addis e in un lampo sono di fronte a me, le palme delle mani cominciano a bagnarsi, sento gocce di sudore scendere lungo la schiena… i primi brividi.
Un attimo di silenzio e mi dicono qualcosa e già non ho più il controllo del respiro e dei muscoli.
Tremo tutta, i denti, le arcate battono tra loro, non capisco, non sento le loro voci.
Loro capiscono che non capisco.
Comprendo solo le loro espressioni, i loro occhi … e mi abbracciano.
“noooo”.
Capisco la gravità vedendo arrivare uno psicologo.
Capisco che il mio seno, dopo la felicità che mi aveva sempre procurato, fatto di sogni e di sguardi, si stava riducendo in panna montata…
E’ lì che imploro Dio, appeso alla parete alle loro spalle.
… ma non bastò
Il mio ambizioso sogno di “sicurezza”, fatto di progressi, di uomini leggeri che ti sorridono per mezzo video dai pianeti, si interrompe. SI spezza l’illusione come un’alluvione, il sogno di sognare la vita.
Straripato il presente, il passato, il futuro.
Disarmata, confusa, tra sogno e realtà Ed eccoti in un giorno qualsiasi faccia a faccia con la grande legge dell’Universo.
Sogno confuso con la realtà, realtà confusa con il sogno.
Ecco di fronte a te la morte, ignorata, respinta, quasi estranea alla vita, avendola scordata a lungo e con la vita forma una coppia indissolubile.
Niente più obbedisce alle visioni ideali, sognati nell’uomo.
Ma è stato qualche giorno fa, o tanto tempo fa, o milioni di anni luce fa?
Che con la mia ritrovata identità planavo per i cieli azzurri di Cagliari?
Stronzo Bastardo Assassino Carcinoma
Chissà quale spirito guidò me e la mia auto dal Brotzu al giardino di casa mia, avevo tanta voglia di urlare, ma nel mio palazzo vige il perbenismo, giudici avvocati e magistrati.
Sembra un palazzo di giustizia.
Inoltre mi condiziona una recente discussione avuta con il mio ex, a proposito del fatto che anche nel dolore ci debba essere contegno e dignità. Discutemmo a proposito di una scelta del suo film, Arcipelaghi.
Io a Giammarco, “Perché la madre del bambino ucciso non esterna il suo dolore?”
“Cioè?”
“Perché piange in silenzio, Gian?”
“Anche nel dolore Pat ci vuole contegno.”
Ma che cazzo, io voglio urlare!!!
Stronzo, Bastardo, farabutto carcinoma assassino!
Ah, per la dignità dovrei chiudere gli occhi e sopprimere il cuore?! Devo essere una presenza umana discreta? Ma io voglio urlare…
“No Pat –mi dico- aspetta, rifletti, forse non è gradito al palazzo…”
Ma come, io voglio urlare?!
E cos’è? In questa cosiddetta civilizzazione è demodè urlare? La ragione deve prevalere sul sentimento? Ma che mi importa del palazzo?! E che mi importa di Gian? E che cazzo mi importa della “sua” città milanese tanto civilizzata? Delle sue teorie… ma il cuore dell’uomo non è dappertutto uguale?
E io chi sono? Sono sempre stata fiera della differenza, delle mie origini. Delle nostre usanze. Le sento ancora quelle urla, quei pianti di madri, di figli, di fratelli che urlano il loro cordoglio, che si battono il petto in segno di disperazione, anche per una banale malattia, per una frattura un arto o due sberle. Le vedo ancora accasciarsi in terra.
Che reazione dovrei avere io davanti a questa notizia?! Ok, ho in mano tutti gli elementi che mi riconducono alle radici del nostro essere. Chiudo i finestrini dell’auto. Ormai è deciso. Urlerò! Mi guardo intorno. Ma come sempre, nella vita, ascolti il tuo istinto e fai esattamente il contrario. In fondo l’eroismo non ha volto. Urlo… piano…
A urlo concluso, sempre dall’interno dell’auto telefono ad amici e parenti. Informo sull’ipotetico carcinoma. Non so cosa sia veramente, ma lo associo più o meno a una medusa, ho una sensazione di orrore. Un’ora dopo e 25 euro di credito telefonico in meno, sono disperata e l’ansia e la disperazione aumentano… Sembra la favola al lupo al lupo. Nessuno arrivò. Rimasi sola, disperata e anche “screditata”… ora si che urlo veramente.
Esami clinici
Le mie amiche Tere, Imma, e Max mi stavano abbastanza vicino, nell’attesa degli esami clinici. Era un incubo.
Era come se il corpo e la testa ruotassero in senso opposto, accompagnati da un senso di nausea… venivo in quella terribile attesa informata che il carcinoma non è assolutamente associabile a una medusa che brucia, e anche se ustionasse non sarebbe paragonabile a un tumore vero.
Un tumore dentro me?
“Si sbagliano Pat - mi dicevano tutti – vedrai che non è così, i medici esagerano”.
Mi aggrappavo alla possibilità dell’errore, come il chirurgo mi disse:
“Potrei sbagliarmi cara…”
Queste erano le sue parole, si, ma l’espressione mi diceva altro e anche i loro abbracci.
E anche la mobilitazione del reparto chirurgia, infermieri compresi.
Ne ebbi la certezza al terzo giorno di analisi in corso, quando ritardai di mezz’ora per fare il marcatore tumorale.
Li trovai nell’atrio ad attendermi fortemente preoccupati facendo segno di disapprovazione senza sgridarmi e un attimo dopo abbracciarmi in segno di solidarietà.
Li, in un istante caddero tutte le speranze di una possibilità di errore.
C’era scritto sulle loro facce, in quegli abbracci, fatti con il cuore più che con le braccia stesse.
Loro erano i chirurghi ma anche i miei amici.
La dottoressa Addis mi aiutò a stendermi in quel l.ettino gelido, il cui acciaio risuonava del panico del mio corpo ridotto a brividi, perché il mio corpo tremava.
Mi sollevò la manica del braccio destro ed io lo consegnai con disperazione, come lo si consegna ad Alcatraz, o come se avessero dovuto amputarlo.
Quel prelievo avrebbe rivelato, segnato o forse tolto l’esistenza mia e dei miei bambini.
“E’ un incubo vi prego svegliatemi” dissi al dottore con la siringa in mano.
“Per favore mi svegli la supplico”.
“mi spiace…”
1° Ricovero
Non riesco a dormire. Nessuno dorme. le luci sono spente. Il silenzio mi crea angoscia.
Ci sono cose in piena luce come il mio tumore, altre in piena ombra, altre immerse nella più totale oscurità del buio, che è domani.
Affronto la notte con non poca ansia e paura.
A ogni ticchettio dell’orologio esprimo un desiderio per i miei figlioletti, la mia mano destra tiene il mio seno sinistro traditore. Non so se amarlo o odiarlo. So che è ancora mio.
Come è proprio, un figlio colpevole, un fratello forse assassino, ma lo ami, lo ami comunque.
Forse anche di più, cerchi attenuanti, vendi, paghi, lo vuoi, lo ami come non mai. Lo vuoi.
Forse non lo toccherò mai più.
Tra qualche ora mi operano. Ho tanta paura come non mai.
Intervento
Ore 7.
Sento mobilitazione nel reparto, sento che parlano di me, sento la barella avvicinarsi. Riconosco le voci dei miei medici e conversazioni telefoniche.
Sento che parlano di un’estemporanea.
No so cosa sia, di certo, non può essere di arte ne di scultura o di pittura.
Più probabile di bisturi.
Hanno anticipato l’intervento di un’ora e nessuno può tenermi la mano.
Ancora non posso credere di avere un tumore, di potermi svegliare senza un seno, mutilata.
Mi portano in sala operatoria, nuda, coperta da un telo verde e da uno bianco.
Ho freddo e tremo. Le arcate dei denti battono fortissimo. Ho paura che si spezzino i denti…
Una paura totale e invincibile si impadronisce di me.
Vorrebbero che Max mi stesse accanto. Lo chiamano, è già in reparto con le mie numerose amiche. Medici e infermieri mi accarezzano la fronte, cuore… L’anestesista e l’aiuto mi tranquillizzano verbalmente.
Mi fanno la preanestesia, mi informano che è arrivato Max. E’ fuori dalla porta.
Mi fanno la sua descrizione, ha un giornale in mano ed è vestito di blu.
E io penso blu come il cielo, blu come il quadro della Rossi, blu come il mare, blu come gli occhi di mio padre, David blu, blu… come gli occhi di Greca che mi accarezza. Prenderà parte all’intervento.
Ore 16
Sento ripetutamente il mio nome, con voci diverse, maschili e femminili.
Patrizia, tesoro, Pat… Patty.
Mi sembra di riconoscere la voce di Max, di greca e dei miei medici.
Per una frazione di secondo apro gli occhi, riconosco quelli di Max, li sento posarsi su i miei.
Capisco che sono nella sala antistante a quella operatoria.
Non posso muovermi ho tubi dappertutto. Mi accorgo di avere un incisivo spezzato e piango un po’.
Ci sono tutti i miei amici e parenti.
Li guardo in silenzio tutti, uno per uno. Abbozzo un sorriso. Lo abbozzano anche loro.
Chiedo spiegazioni per il dente…
“Chi mi ha rotto il dente? Perché è rotto? Ho avuto un incidente?” chiedo a Max. “ero con e Max?” Nessuno risponde. Dispiaciuta per il dente ignoro tutte le persone, gli aghi,, le flebo, i tubi e vado in escandescenze.
“Il dente Greca perché? Chi mi ha rotto il dente?”
“Non preoccuparti per il dente, Pat, si può incapsulare..”
Infierisco su di lei quasi ritenendola responsabile…
“Ma che ci faccio qua? Greca perché sono qua? Cosa mi è successo Greca!”
Cerco conferma nei loro volti.
“Sta calma Pat..”
All’improvviso un silenzio tombale nella camera, ed escono tutti…
Come un flash ricordo tutto, la sala operatoria, il tumore al seno, è il momento della verità.
“Mio Dio, no….”
Sono terrorizzata.
Ho voglia di urlare, ma non riesco ad emettere suoni…
“No, greca, no…no Max, no aiuto.”
Camminando all’indietro, Greca si allontana da me, vedo il suo viso terrorizzato quanto il mio, Max rimane vicino a me.
Mi tiene la mano e la fronte.
Sento attraverso la porta socchiusa il pianto di Greca, e dei miei amici.
Gli occhi di Max incrociano i miei, si guardano ma poi i suoi si abbassano lentamente.
Non sono più di perla ma diventano di sabbia, non luccicano più.
Capisco tutto.
Appoggia il viso sul mio.
Non riesco a respirare. Sento il suo cuore battere nel mio petto.
Il TIR IVECO ritorna. Sempre più grande. Non ho la forza di urlare, sento un coltello che recide la mia giugulare, una corda che mi stringe il collo, non respiro.
Max consegna la mia mano a Greca che rientra.
Entra casualmente, fatalmente, disgraziatamente, un medico quasi in contemporanea al ritorno di Max, che è oltre un metro dietro di lui; faccio a tempo a chiedere al medico cosa mi era successo.
“Hai un cancro, cancro maligno , secondo grado di malignità”.
Max cerca di fare barriera con le mani al mio udito.
“Noooooooooooo “. E’ sconvolto quanto me. Mi bacia gli occhi. Continua a farmi da barriera per non udire oltre.
“Max, nooo, aiuto, no”
Mi sento morire, preferirei morire. Sento il cuore sfondare la cassa toracica.
“No Max, Greca nooo. Per favore no!”
Max ignorando la presenza di colui che mi aveva dato la crudele sentenza, chiede a voce alta un Medico, “Per favore chiamate un medico, subito!”
Informati, arrivano di corsa i miei angeli salvatori, il Dottor Boi, e la Dottoressa Addis.
Mi abbracciano, si dispiacciono anche loro per come ho appreso la notizia. Mi fanno un elettrocardiogramma d’urgenza, mi danno il valium, mi mandano una psicologa.
“No Dio pietà, no ti prego… ditemi che sto sognando, non mi piace questo sogno, vi supplico svegliatemi. Il cancro no, non è vero, ditemi che non è vero, vi supplico.
Come faccio stanotte, dimmelo ti prego”
“Ti regalo i miei occhi non avere paura..”
Max mi bacia gli occhi.
“Mi spiace tesoro…”
Pietà
Ma Dio dove era ora?
E le ali? Le mie ali dove sono adesso?
Forse sono attaccate alle pareti, come i miei sogni, sono qua, in questi corridoi apparentemente silenziosi, ma urlano, urlano pietà.
Il testamento di Lori
Lori, una mia amica, ex compagna di scuola, è ricoverata nella camera a fianco, sta male, molto male, per lei non ci saranno più stagioni, né vita.
Lucidamente implorava da giorni, fino alla mezzanotte di oggi, di voler tornare a casa, dai suoi cari, dal marito, dalla sua bambina.
Urlava il nome del marito, Mauro, ma lui non c’era. Nessuno c’era. Le sue urla uscivano dalla camera, entravano nelle altre, nei corridoi.
Muoveva la mano in gesti impotenti che ricadevano subito da ciò che aveva afferrato nell’aria.
Urla di delusione, di terrore, di paura, per il mondo che lasciava alla sua bambina.
Tutto mi riporta al pensiero della modernità, a questa inversione di tendenza. Nulla nega il diffondersi di modelli nuovi di sentimenti, di cui ci serviamo a tasti, nel momento in cui riteniamo di volerli prendere, spazzando via a questo modo, la coscienza, delegandola esclusivamente ai medici e servendoci fedelmente della legge, e non delle fedeltà dell’uomo.
Chiedendo, nascosti fra le ipocrite lacrime e preghiere, e tutto si confonde con le leggi, ai medici di salvare la persona, di continuare le terapie, e poco importa se ogni ragionevole speranza è scomparsa in contemporanea alle richieste imploranti di Lori di tornare a casa.
La morte è anti sociale e questa è la prima vittima, prima dell’uomo stesso, perché diventa la “morte” stessa vergogna.
Si uccide così prima la “morte” della “morte” stessa, nascosta da un volto extraterritoriale e non hai più posto se non in un ambiente tecnico, al quale si incarica e si scarica, sconsacrandola.
Il paziente apparentemente scompare dalla vita dei “cari” ancor prima che ci abbia lasciato, si “muore” nascosti. Il testamento di Lori era di tornare a casa sua.
Già, tutti i testamenti hanno un valore, un proprio valore, ma non questo. Lori ormai no conta più niente. Chi, a questo punto, deve rispettare la persona umana, le sue ultime volontà? Perché trasferiscono la coscienza a una cannula di flebo, ai medici?
Cosa nasconde questa fermezza dei “cari” parenti a non volersi chinare all’imminente morte?
Perché questa diventa più importante della vita?
Ore 6 dl mattino. Impossibile dormire. Lori viene portata via. Nel viaggio degli inganni.
Ho visto passare la perdita di una vita che “urlava” pietà.
E il testamento di lori? E le parole di Lori ? E le sue paure?
Chi deve fare rispettare queste ultime volontà?
Le sue paure del consapevole passaggio e distacco?
I suoi interlocutori sono diventati la signora delle pulizie, gli infermieri, i medici.
A loro confidava, esprimeva le sue paure, e con rispetto veniva ascoltata. I parenti rispettavano gli orari delle visite 13.00-14.00, 18.00-19.00.
Se sarà “fortunata” troverà una infermiera che le terrà la mano senza conoscerne neanche il nome.
Dietro un separè verde ma potrebbe essere più “fortunata” ed avere una camera singola, “riservata”. E il testamento di Lori? La sua richiesta non contiene niente, né denaro, ne mobili né immobili, ma solo paura, dolore e amore, null’altro. Lori non tornerà a casa. Un corpo malato è un marchio, un fallimento familiare. Non ha funzioni sociali. Si affida all’oggettivazione del corpo e discriminazione dell’anima. Ma poco fa ha sorriso ugualmente, a un metro da me, da tutti noi.
Uno dei medici invitava ripetutamente i familiari a prendere parte al “passaggio”, l’altro accarezza Lori stremata, è impaurita. Al suo dramma si aggiunge un nuovo moderno universo familiare, probabilmente a lei sconosciuto.
Il loro abbandono morale. Ma Lori non ci crede ancora, ancora abbozza sorrisi, ma forse di gratitudine. Vediamo l’angoscia di infermieri e medici, nel farle le ultime carezze. Il medico è biondo e a Lori deve esserle sembrato un angelo. Un Dio. Non so, potrebbe esserle sembrato anche Mauro, il marito assente… O forse un prato di fiori.
Inizio chemioterapia
“No, per favore no, vi prego, no – urlo- Dio dove sei? Cosa stai facendo? Pietà, Dio, scendi giù, hai capito? Devi scendere… Per favore, dottore iniziamo domani… oggi non me la sento”
“No dobbiamo iniziare oggi, non puoi più scegliere…. Il cancro non aspetta, devi farlo”…
Do il braccio, mi infilano la cannula, innestano la flebo, scende il primo dei sette litri.
Il mio corpo non è più il mio. E’ suo. La mia vita non è più mia. La mia mente già non mi appartiene. Secondo litro. C’è un kamikaze dentro il mio corpo, c’è un esplosione, nessuno mai potrà spiegarlo, tremo, ho freddo, le arcate dei denti battono, ho nausea.
Cinque ora dopo i medici mi accarezzano e mi asciugano la fronte per l’ultimo litro.
“Max voglio morire. Uccidimi…”
La in quel letto la mia vita mi lasciò, il mio corpo mi lasciò. I vomiti si sincronizzarono alle pulsazioni del mio cuore, ai battiti cardiaci. Qualche giorno dopo la dottoressa Marina, trovandomi in lacrime, mi dà dei consigli. Mi indica attraverso una parete divisoria alcuni pazienti dell’ematologia… “Vedi quelle – mio dice- sono depresse… si sono lasciate schiacciare, tu vuoi diventare così?§ Rimarrai sola Patrizia, non mi pare una buona idea… scegli tu per te. Devi cercare soddisfazione nelle cose che hai, non in quelle che ti mancano. C’è tempo.”
Mi abbraccia “La lotta inizia adesso ma potrebbe concludersi con una vittoria, che sia per un anno, per due anni, chi lo sa. Ancora non è stato giocato tutto, Patrizia. Non pensare alla verità come una sentenza definitiva, l’unica scelta è battersi sotto il segno della speranza. Sarà un prova dura e penosa. La lotta cancro il cancro esige un coraggio sovraumano, ma il sogno è ancora possibile.” . Guardo l’immensità e la bellezza della dottoressa Marina mentre si allontana, lasciandomi un permesso firmato per due giorni.
In auto”Max non respiro, l’aria è pesante.”
Mi guarda, ride, mi accarezza le labbra con le dita.
Il semaforo è rosso. Mi accarezza il viso… eee sfiora le labbra sulle mie. O mio Dio, mi trema il cuore. Il sogno si corona al semaforo. Semaforo profeziatore.
“Mai amato il semaforo rosso tesoro”
E a ridere felici, con il chewing gum in bocca e nausea in stand by, come due turisti n vacanza.
Il semaforo splende di nuovo, luccica, rosso rubino, rosso incantesimo. Unica testimonianza del miracolo. Mi riabbassa la mascherina eee… mi bacia, un bacio quasi vero… saporito, alla menta.
Mi tremano le mani. Le labbra idem. Aiuto!
“La fortuna mi ha baciato oggi”.
“Anche io Max ti ho baciato!”
“No tu no! Ma dato che il semaforo ora è verde eee.. annuncia il rosso… eee tra non molto ti bacerò ancora… e tu tesoro… dovrai concentrarti… abbassare gli occhi e adagiare… la …”
“La …cosa Max?”
“La tua lingua… sulla mia tesoro…”
“Ah, ok”
“Ok, siamo intesi, ti ricordi tutto?”
Altrochè penso, e quando si potrà ripetere un abbaglio simile?
Mi riabbassa la mascherina…. Ci guardiamo negli occhi a lungo… eeee ci suonano i clacson delle auto, e a ridere. Il tempo ci è scappato di bocca!E’ verde… verde speranza. Torna il rosso splendente… rosso rubino… eee SMACK…. Incantesimo! Un bacio vero, stellare. Il primo!

Eeeee a ridere
W la vita!
W il sogno!
W la speranza!
Vento nel vento
Addio
E’ trascorso qualche mese, con molta fatica mi adatto al nuovo vivere. Non riesco a riprendermi, ho tremori al corpo. Ho nausea, capogiri, vertigini, vomito in continuazione. Per me hanno scelto i farmaci. Ha scelto il mio corpo che amavo, ora traditore. Vivo perdendone ogni giorno la padronanza.
Come un’offesa alla mia dignità. Mi sento una cosa senza sesso, sogni e senza sentimento. Il cancro, il delirio la follia erano in me con violenza e senza compassione. La violenta verità sul mio stato di salute e l’angosciante attesa della probabile quasi certa recidività di metastasi aveva avuto pesanti ripercussioni psichiche, in aggiunta a quelle fisiche.
Se, lo ripeto, un mal di testa, una colica può far precipitare il mondo, se può stravolgere l’ordine di una giornata, se basta così poco, la chemioterapia, la verità fa precipitare l’universo, il mondo intero.
A tutto questo si aggiunge, arriva un’esplosione di nuovi sentimenti, di collera, ribellione contro Dio onnipotente. Contro il destino crudele. Ma di questo non possiamo impadronirci e allora ci si indirizza verso i meno pericolosi, amati amici, amati fratelli, amato Max.
Ormai avevo deciso. In preda al dolore alla paura, nessuno poteva ormai più aiutarmi.
In preda alla follia racconto a Max un mare, un oceano di bugie. Volevo, decisi al momento di volere il suo odio, lo stesso che provavo per la mia malattia, il cancro.
Era deciso. Non so dove inizi e dove finisca la saggezza. L’espressione di impotenza e di vuoto e nel vuoto, era davanti a me, per la prima volta sul viso di Max. E per la prima volta mi chiamo Pat.
“Pat sono stanco, confuso, non so più cosa fare”
“Si, è giusto… Max.. No, no, no, non è giusto.”
“No Max aspetta!”
“E’ stato bello Max”
non bastarono gli influssi del sole e le suggestioni celesti
Nooo Max, ti prego perdonami.
Una fitta mi trapassò il cuore, mi trapassò il cervello, come non mai. Mai.
Avevo perso un pezzo di vita. L’ultimo.
Uno struggimento furono i giorni e i mesi successivi.
L’assenza della sua voce, il calore avvolgente delle sue braccia.
Questa è la cronaca di tre presenze, io, lui, il cancro.
Che si trovano, si mancano, in un mare e oceano di incertezze, paure e cercano di resistere con tenacia, cercando transito in un paradiso che sta dentro l’inferno.
E la vera sconfitta è restarci.
Per questo l’ho voluto raccontare.
Grazie Max, ufficiale gentiluomo per avermi tenuta “in braccio” tutte le volte che stavo per cadere, perché dal vuoto non ci si salva.
Grazie Max, che Dio ti illumini e ti assista come tu hai assistito me.
Con infinita riconoscenza Patrizia.

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