12/10/05

Recuperante

di Gai Pietro - Feltre (BL), Secondo Classificato

Il lavoro del recuperante, dalla fine della Grande Guerra ad oggi, ha permesso di raccogliere i materiali bellici presenti nelle zone in cui si verificarono gli scontri più duri e di consegnarli ai vari musei della guerra come testimonianza del più atroce mezzo che l’uomo conosca per avere ragione su un altro uomo. Ma il recuperante opera un altro servigio: restituisce, ripulendoli, spazi di rara bellezza naturalistica agli escursionisti che diversamente, per ovvie ragioni di sicurezza, non avrebbero potuto goderne.
Per aver testimoniato, attraverso il racconto autobiografico, il “passaggio delle consegne”, una sorta di eredità concessa dallo zio al nipote, e per aver “ reso giustizia”, dandone conoscenza, al lavoro difficile, pericoloso ed ormai quasi estinto, del recuperante tradizionale.

Ospitale di Cadore Belluno 1972.
Ci aveva messo tutto l’entusiasmo possibile. Ma, per un settantenne o giù di lì, improvvisarsi bambinaio o come diavolo lo si voleva chiamare, era impresa improba. Suo figlio era ormai di mezza età e, a parte la nipote, piccoli ospiti, in casa, non ne ricordava da secoli. Quando i lontani parenti del fondovalle si inerpicavano sin lassù, tra le Dolomiti del Cadore, ad un passo dal cielo, si creava sempre lo stesso problema. Mentre le donne del gruppo si raccoglievano in salotto a raccontarsi aneddoti e fatterelli in tanti mesi accaduti a parenti e conoscenti, prima dell’irrinunciabile visita al cimitero, il più piccolo della compagnia toccava in sorte a lui. Il bel tempo, era un potente alleato. Camminate lungo i sentieri, ad osservare le tane delle bestie selvatiche, le impronte, i fiori multicolori, ad offrire noci sgusciate all’ingresso della tana del diffidente ghiro, ormai quasi addomesticato, a poca distanza dalla casetta fra pascoli e guglie svettanti… il problema era presto risolto. Per fortuna, il marmocchio era un tipo tranquillo sempre attento ad ascoltare e imparare. In caso di pioggia, si poteva sempre salire nella mansarda, ristrutturata con le proprie mani, tirar fuori il violino e, di fronte al caminetto accesso, spiegare ai sei anni avidi di nuove esperienze i segreti degli spartiti musicali, delle note e degli strumenti che lui stesso si era pazientemente costruito. Aveva perso la nozione di quanti arti e mestieri avesse appreso, nella sua lunga esistenza. In un paese dove la fame spesso aveva mietuto le sue vittime, anche in tempi recenti, e l’emigrazione era stata la più usuale delle vie per sfuggirvi, un patrimonio di conoscenze tanto vasto, gli era tornato spesso utile. Peccato solo che, con l’unico figlio dirigente statale, tutto fosse destinato a scomparire alla sua morte. In quel momento, il problema era però un altro: per la prima volta, si trovava a disagio di fronte al lontano nipote. Il suo limitato campionario adatto ai bimbi, lo aveva già esaurito nella precedente visita. E lui si aspettava qualcosa di nuovo. Come non deluderlo? L’idea gli si fece strada quasi casualmente. Doveva terminare alcuni lavoretti,. In particolare la recinzione dell’orto…
“Adesso faremo un sarto più in su, lungo il sentiero. Ho bisogno di un aiutante per finire per bene di sistemare la rete. Ti ho aspettato apposta…
Inorgoglito, il bimbo lo seguì mentre tracciava la strada. Ad un tratto, il bimbo si fermò, raccogliendo dal percorso sterrato un piccolo oggetto bruno. Cos’è questo, zio Attilio?” “E’ una pallottola. Sai, quassù si è molto combattuto, nella prima guerra mondiale. Italiani e austriaci, poi, abbiamo avuto i tedeschi nella seconda, ma erano gli stessi austriaci della prima, e non hanno fatto danni. Quando avevo pressa poco la tua età, aiutavo i miei parenti a raccogliere ferro e rame abbandonati dai due eserciti. Granate, munizioni, armi, elmetti… tutto andava poi in fonderia giù nella vallata del Piave”.
Davvero, zio? Non avevi paura? Ed è rimasto come allora? Mi porti a vedere…
Il fiume di domande gli strappò una risata. “Abbi pazienza. Quando saremo a casa ti mostrerò qualcosa che conservo ancora in cantina. Un po’ di munizioni, un elmo austriaco… penso di poterli rimediare. Anche adesso, stiamo cercando qualcosa di allora. Indicò in basso il grande orto, circondato da strani pali di ferro contorti. “Si chiamano in dialetto “code de porthel”, code di maiale. Servivano per sistemare i reticolati. Me ne manca una. E spero di trovarla in quel boschetto a destra, dove correva un trincerane di prima linea. Poi, andremo a dare un occhiata nella galleria scavata nella roccia viva più in basso, sulla destra del paese. Se non ti stancherai troppo presto, ti spiegherò come guardare lungo gli scoli dell’acqua piovana le piccole frane, tra le radici degli alberi cresciuti trai i costoni. Si trova sempre qualcosa d’interessante… Ovviamente, guarderai soltanto per sicurezza. Magari più avanti faremo qualche ricerca insieme. Adesso comunque, infiliamoci in mezzo quei larici, ed apri gli occhi. Di quel palo ne ho proprio bisogno”
Lo aveva sorpreso lo sguardo strano, quasi rapito del giovanissimo accompagnatore. Aveva preso così sul serio il compito che, nonostante le avesse viste per la prima volta pochi attimi prima, fu lui a scoprire nell’oscurità fittissima delle piante secolari, la “coda de porthel” semicoperta da rami e aghi di conifera. Doveva riconoscerlo: per quello che continuava a chiamare “gioco”, il nipote aveva un istinto davvero speciale…

Monfenera, 2001. Lungo il ripido declivio le mani guantate, incuranti di rovi e sassi, sondano, frugano, scavano, puliscono. Il picconcino entrerà in azione subito dopo, mentre dalla terra bruna una dopo l’altra ricompaiono le testimonianze di una tragedia ricordata ormai solo per dovere di calendario. Pallottole francesi, bottoni austriaci, gavette italiane arrugginite, cucchiai tedeschi, filtri per maschera antigas. Bombe a mano dalle leggere cariche offensive degli imperi centrali, montate su manici di legno miracolosamente ancora integri, pesanti ananas difensivi del Regio Esercito e delle truppe transalpine ancora mortalmente attivi, granate di ogni calibro e contenuto, dal semplice tritolo agli shrapnell, pallette uncinate per fare scempio della fanteria avversaria, sino al gas, la terribile iprite color mostarda che spellava vivi le disgraziate vittime. Dieci cento attrezzi per massacrarsi bestialmente nel corpo a corpo, dalle baionette a sega alle vanghe, dalle zappe da trincea alle mazze e pugnali, ai coltelli d’assalto, alle lame a mezzaluna bosniache sino ai manici di piccone abbandonati tra le schegge d’osso, e una cascata di frammenti di vetro a tappezzare ogni angolo di prima linea, resti delle bottiglie di grappa con cui entrambi i contendenti stordivano le truppe prima di spedirle al massacro in campo aperto. No zio Attilio: almeno una delle tue conoscenze non è andata perduta. Continuerò la tua opera sino alla fine. Ma non più come accadde a te per sfuggire alla fame. Il “gioco” di trent’anni prima è divenuto qualcos ‘altro: salvare quello che ancora oggi campi di battaglia, trincee, gallerie, buche solitarie restituiscono dell’immane bagno di sangue che ci fu in Europa dal 1914 al 1918, in memoria di tutti coloro che non sono tornati a casa, da una parte e dall’altra e che in buona parte riposano ancora insepolti anche e soprattutto tra le montagne del Bellunese. Perché anche l’oggetto più piccolo ritorni alla luce, riprenda vita sotto le mie mani durante il restauro e approdi nella sicurezza di un museo, raccontando storie di eroismi e viltà ma, soprattutto, le sofferenze di tante persone comuni, protagoniste di una tragedia in cui mai avevano chiesto una parte.
Caro zio, le tue lezione su scoli piovani, frane e smottamenti, cambi di vegetazione e radici lungo i pendii sono state assimilate e messe a frutto. Una parte di te, corre ancora fra le rocce e i ghiaioni, alla ricerca dell’improbabile pronto a tramutarsi in realtà. Quella che ha forgiato il mio spirito. Lo spirito di Pietro Gai, l’ultimo dei recuperanti tradizionali.

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