16/11/02

Da: Icaro

di Becerra Cano Natalia, Prima Classificata

Nell’uomo è insito il desiderio della libertà.
E’ come gli uccelli che volano fra cielo, mare e terra liberi e felici.

Aprire le ali
e volare
seguendo un
sentiero,
sopra il sole
e le stelle
sotto il mare
ed il precipizio.

Aprire le ali
e volare
come se tutto fosse
contemporaneamente,
come se tutto cominciasse
in ogni momento.

Aprire le ali
e volare
seguendo il suolo
sinuoso della terra
per dopo
perdersi
nell’infinito dell’azzurro.

Aprire le ali
e volare
con l’alba
e col tramonto,
dietro le spalle dell’orizzonte

Aprire le ali
e volare.

Un giorno nuovo

di Pizzo Antonella di Ragusa, Terza Classificata

L’incontro è casuale e fortuito, tra chi non ha più nulla da chiedere alla vita, e chi invece sta camminando sull’orlo del baratro.
La vita, nonostante tutto, vale sempre la pena di essere vissuta, fino in fondo

Si svegliò quando si svegliano i vecchi, prima che fuori facesse giorno. Era vecchio e dormiva pochissimo, quattro ore di sonno gli bastavano, di più non sarebbe riuscito a dormire. Dormono poco i vecchi ma dormono, ridono e piangono come tutti, provano gioie e dolori come quelli che non sono vecchi. SI mosse nel letto, facendo attenzione ai movimenti, era bravo e sapeva, per averlo imparato sulla propria pelle, come evitare quelli che gli che gli avrebbero fatto sentire dolore. L’artrite non gli dava tregua ma considerando la sua età non si lamentava. Concettina era morta molti anni fa, non aveva retto allo strazio per la perdita del figlio. Di questo figlio, l’unico che il Signore gli aveva mandato, Peppino aveva un ricordo chiarissimo. Gli bastava chiudere gli occhi per sentirlo cantare. Lo portava con se in campagna e quando erano stanchi si fermavano a riposare sotto un albero, bevevano un po’ di acqua fresca dalla brocca di terracotta e intonavano una canzone. La sera quando tornavano, Concettina apparecchiava la tavola, caciocavallo e salsiccia secca, oppure minestra di legumi e pane fatto in casa duro di tre giorni ma tagliato sottile sottile, da inzuppare per benino, nel liquido caldo e saporito fino a farlo diventare morbido. Ma nel corpo di quel figlio covava un male insidioso che lentamente lo consumò. Di un altro male si consumò per anni Concettina, di tristezza profonda, di dolore che strazia. Per ore stava seduta in cucina. Guardava fuori, la strada, i bambini che giocavano, gli alberi mossi dal vento e il cielo azzurro. Poggiato sul grembo il lavoro all’uncinetto. Il suo sguardo era spento ma a volte i suoi occhi avevano un guizzo, sembrava cercassero una via di scampo. Peppino tornava tardi dal lavoro e la trovava lì immobile. Anche quel giorno la trovò lì, come sempre, con il capo reclinato. Concettina aveva raggiunto chissà dove il suo figlio perduto. Sia fatta la volontà di Dio disse a se stesso e a Dio chiese la forza per continuare a vivere.
Pensava a loro in ogni momento della giornata e come sempre si struggeva. Ma ora era tardi e doveva sbrigarsi. Mise sul fuoco il pentolino con l’acqua, aspettò che bollisse e si preparò il suo caffè d’orzo. “Oggi è sabato” pensò, e si preoccupò perché l’unica corriera che portava al cimitero sarebbe partita a momenti e lui ormai era lento nei movimenti, aveva bisogno di molto tempo per prepararsi. “ Presto, presto, devo fare presto, la corriera non aspetta” si disse. Finì di bere il suo orzo e si preparò con cura, prese il basco ed il bastone e uscì di casa. Circa alla stessa ora, in una villa nascosta da una alta siepe di una specie assai rara, si alzò anche Marco. Con Anna, la moglie, era ai ferri corti, non si sopportavano e non si parlavano più, e quando lo facevano era solo per farsi del male. Da quando il loro patrimonio, a causa di speculazioni sbagliate, si era ridotto all’osso, Marco non si dava pace. SI chiedeva perché e che cosa avesse fatto di male per meritare ciò. Si era chiuso in se stesso, chiuso ed ottuso, nel proprio mondo popolato dal fantasma della povertà e del fallimento. Quella mattina uscì sbattendo la porta, scese in garage, mise in moto la sua macchina e sfrecciò via. “Basta” pensò, “non posso continuare a vivere in questo modo, questa volta la faccio finita, tiro dritto con la macchina e mi butto giù dal burrone”. Passò dal cimitero per chiedere perdono al proprio padre per il gesto estremo che stava per compiere.
Peppino aveva terminato la propria visita settimanale ai propri cari, aveva acceso i lumini, pulito le lastre di marmo, sostituito i fiori secchi. Cominciò all’improvviso a tuonare. “ E’ ora di andare, è meglio sbrigarsi” pensò, ma non aveva ancora finito di percorrere il vialetto che conduceva all’uscita, che già grosse gocce d’acqua cominciarono a cadere inzuppando il suo basco. Cercò di affrettarsi ma aveva paura di scivolare. Uscì dal cimitero e si accorse che la corriera era ripartita lasciandolo lì mezzo fradicio e affannato. Fu allora che Peppino vide quell’uomo, un bell’uomo, vestito bene, con la faccia seria.
“Mi scusi” disse, “potrebbe darmi un passaggio fino al paese?” Marco lo guardò senza battere ciglio “ci vada solo a quel paese” rispose, “io ho altro da fare”. L’uomo salì furioso in macchina premette sull’acceleratore e si sentì un verme. Ma che uomo era diventato, negare un passaggio ad un vecchio! Provò un gran disprezzo per se stesso. Tornò indietro. “Salga pure” disse, “e mi scusi per poco fa. Chi è venuto a trovare al cimitero?” Fuori continuava a piovere, mentre Peppino raccontava la sua storia “vengo al cimitero ogni sabato, sono solo al mondo e non servo a nessuno. Ma ho imparato con l’età che c’è una ragione per tutto, anche se noi non la conosciamo e che ogni giorno è un giorno nuovo”.
Arrivarono al paese. “Grazie” disse Peppino, “io non so come ricambiare la vostra cortesia”. “Oh se ha ricambiato!” rispose Marco, “lei non immagina quanto!”. Marco tornò a casa. Anna ancora dormiva, baciò sulla fronte. Svegliati Anna svegliati, presto, apri gli occhi, svegliati che oggi è festa. Svegliati che oggi è un giorno nuovo.

Afganistan

di Rovini Maurizio di Pisa, Secondo Classificato

La guerra, la fame, la miseria sono orrori, che diventano ancora più agghiaccianti quando li tocchi con mano e ti scuotono dalle tue certezze e dalle tue sicurezze.
Ritorniamo ad essere uomini.

“ Oggi ho visto i tuoi occhi morire, chiudersi nel volto sereno, piccolo.
Erano grandi, azzurri e tristi.
Stavano nascosti tra le braccia della madre, seduti tra le pieghe del vestito, tra il silenzio, nel sole forte. Solchi scavati dalla fame sui volti rassegnati, mosche volanti, polvere rossa, caldo soffocante.
Ero in Afganistan, nella mia vita tempestosa, ricca di capricci e voglie matte. Ero però lì, in mezzo a bambini scarni, rattoppati e vecchi, ero lì per mia scelta, per crescere, per capire se potevo servire a qualcosa, quasi per gioco.
Potevo essere in altri mille posti di questa Terra, sarebbe stato lo stesso, gli occhi di quei bambini sono tutti uguali; la miseria non ha confini e li dipinge sui volti piccoli come se fosse lo stesso pittore, la stessa mano, la riconosci sempre.
La mia avventura aveva portato il mio entusiasmo a morire davanti a quelle capanne piene di terra rossa, con le pietre da orizzonte. Ero alla prima missione ed ero preparato ma nulla al mondo esiste come lì, tutto è diverso, anche la morte lo è.
Bambini tra la polvere del camion correvano tra le ruote urlavano, gioivano; il pasto era giunto incuranti del resto, anche se la morte giungeva a pochi passi da loro.
La mia gioia nel donare, l’entusiasmo nello strappare un sorriso, la felicità semplice di far del bene, poi ho incontrato la tua piccola sagoma rannicchiata nella capanna, bambino mio, e tutto il mio sogno è finito lì.
E’ il mio pianto che non ho più trattenuto, è la rabbia di non poter fa più nulla, per non essere venuto prima.
La mia mano di sfiora lentamente, piano piano. Perché Dio? Perché? Dov’è la tua carità? Che male così grande avrà commesso mai questo bambino?
Cielo, quanto è lontano il mio paese, quanto vorrei che mio figlio capisse quello che possiede, il cibo nel piatto, la vita che fa.
Vedesse il nulla che hanno quaggiù, con quanto poco avrei potuto salvare una vita. Chino la testa per piangere ma la donna sorride, il bambino mi attendeva e non posso che sorridere.
Tu non hai più la forza di nulla, mi guardi soltanto e i tuoi occhi mi penetrano come mille lance, mi trafiggono l’anima, tolgono il respiro.
Il sorriso è il dono che mi offre la madre, ma tutto è finito per il suo bambino. Gli occhi si chiudono per sempre mentre il vento sabbioso copre tutto di rosso. Le mie orme, il mio cammino dal camion svanisce nel silenzio del vento, cado in ginocchio a capo basso e piango.
Penso alla mia colpa, la tua vita l’avrei potuta salvare con una semplice medicina, con poche cose che non costano più di un cd; mio figlio ne possiede un intero armadio.
Mi sento in colpa con tutti, sono grasso, ben vestito, istruito; non sono nulla davanti a quella donna che ha accetto il decesso senza dire niente, sorridendo.
Ero partito dalla mia città quasi per scommessa, un’avventura umanitaria che avrebbe cambiato la mia vita, così come ha fatto per molti altri come me.
Partendo, nella polvere alzata dal camion, la mano della donna si alzò e mi salutò. Nulla avevo fatto se non far credere al suo bambino che la sua vita sarebbe stata lunga, che tutte le sofferenze erano finite, con me.
Bambino mio, volare nell’erba ondeggiante al vento, correre sorridendo nel Sole dell’estate eterna, sognare come fa un bambino, vivere come un uomo; tu questo volevi fare.”
Ogni giorno penso a quegli occhi tristi,a quei bambini che ho visto morire per pochi denari, alla mia attività di volontario che ha spazzato la mia vita sentimentale, i miei risparmi. Non importa tutto questo, nulla è più importante di un bambino che ride felice.
Anch’io sono rimasto solo, nella mia solitudine fatta di attesa tra un viaggio e l’altro, tra i poveri di tutto il mondo, non sono mai più stato lo stesso, folgorato.
In quei giorni d’attesa, spesso, rifletto seduto in riva ad un tramonto, con il mare per unico amico.
Osservo l’onda frangersi e venirmi incontro toccata al Sole, lo stesso Sole di mille missioni. Allungo la mano come toccarla, come lavarmi, un’abluzione che porta con sé ogni scoria, ogni cattivo pensiero che l’alberga nell’anima mia.
Questa esplode in schiuma bianca, lasciandomi immerso nei dubbi; certo che non potrò mai fare abbastanza per il mondo. Abbasso la mano tesa, presa nella sabbia umida e urlo la mia rabbia al vento, furioso pensando al bambino dagli occhi azzurri del quale non ho mai saputo neppure il nome.

Come quando fuori piove

di Brescia Lorella di San Salvo (Chieti), Prima Classificata

L’autrice un questa favola sviluppa il tema dell’amore. Per poter vivere con l’amato bisogna essere pronti anche a sacrificare un po’ di noi stessi e della nostra natura

“Un dì Carolina, rovistando in un cassetto, trovò due mazzi di carte: uno francese e uno napoletano. Che farne? Certo, un bel castello! Ma un castello unico al mondo, a piani alterni di carte da poker da scopone.
Fu così che il cavalier di coppe vide, a far da solaio sopra la sua testa, la donna di picche:
- Siete incantevole madamigella – le disse – volete sposarmi?
Quella non ci penso neppure un attimo:
- Picche! – fu la sola parola che le uscì di bocca.
Il cavalier di coppe ci rimase un po’ male, ma poi pensò che per riconquistare una donna così bella bisognava farle almeno un dono:
- Madamigella – fece tornando a rivolgersi a lei – vi offro il tre e i cinque di denari, son qui lustri lustri per voi.
- Come osate screanzato offrirmi dei denari? Picche è la mia risposta!
Pietre preziose, ecco cosa ci voleva per un a donna nobile ed elegante, pensò il cavaliere:
- Il dieci di quadri, che nella simbologia delle carte vuol dire diamanti, sarà vostro per un sol bacio madamigella.
Ella si sforzò di controllarsi per un attimo, pareva simpatico in fondo, ma poi sbottò:
- Come potete pensare che l’amore di una dama si possa conquistare con doni preziosi ? Picche è la mia risposta!
Costei è la dama di picche, pensò allora il cavaliere, che tradotte in carte napoletane vuol dire spade. Ecco un dono adatto a lei!
- Madamigella abbiate la bontà di accettare il tre di spade. In fede mia, in tutta Toledo non vi sono lame migliori di queste.
- Che screanzato! Che se ne dovrebbe fare una gentildonna di simili spiedi? Picche vi rispondo messere! – fu ciò che le uscì di bocca, ma il suo animo avrebbe voluto essere meno duro.
Che sciocco! Pensò il cavaliere, una donna non è mica un rude soldato? Ci voleva qualcosa di più romantico del freddo acciaio:
- Madamigella – cominciò tornando a pararle – ho qui il sette di fiori e il corrispettivo sette di bastoni. Vi prego, prendeteli.
Certo, quell’uomo si faceva in quattro per compiacerla. Doveva amarla davvero molto, avrebbe accettato volentieri l’omaggio floreale, ma dalla sua bocca uscì ancora:
- Picche!
Il cavaliere chinò il capo sconsolato. Stava per arrendersi, quando pensò di giocarsi l’ultima carta:
- non mi rimane che la mia coppa madamigella. Coppe, in carte francesi è come dir cuori. Vi prego, abbandonate ogni rancore e prendetela.
Quanto avrebbe voluto dirgli di sì. Cercò di guardarlo negli occhi, ma non ci riuscì, poiché lei, donna di picche, sola fra le quattro carte del mazzo francese, guarda sempre verso destra, proprio come il napoletano cavalier di coppe. Scorgeva appena la sua casacca verde e oro, e quei simpatici baffetti sotto il berretto rosso piumato. Così finì per ripetere ancora una volta.
- Picche!
Il cavalier non osò aggiungere altro:
la donna scoppiò in lacrime:
- Jolly – chiamò – fatemi ridere! – ordinò.
Il giullare allora le cantò allegre filastrocche, le fece vedere giochi di prestigio, si esibì in mille acrobazie, le mostrò l’abilità della sua scimmietta ammaestrata, arrivò a raccontarle storielle un po’ scollacciate…. Ma quella non rise.
- Che avete mia signora? – le chiese allora – Che vi cruccia?
Lei tra un singhiozzo e l’altro gli narrò tutto il suo tormento.
- In tutto il castello non v’è che una sola carta che vi possa aiutare mia signora – le confidò il jolly – ma va presa con le molle perché è un po’ matta.
La donna di picche, udite queste parole, si rivolse a chi di dovere:
- Potente re di denari – cominciò – voi che comandate a sette e mezzo e unica carta nel vostro mazzo potete cambiar valore a vostro piacimento; fate ch’io possa mutare il mio seme, e con esso il mio atteggiamento verso il cavalier di coppe.
- Grande è il mio valore, ma più grande ancor è l’amore. Voi dunque l’amate? – chiese la matta.
- Ahimè messere! Io non sono capace di amare, ma se avessi anch’io un cuore…
- E sia: d’ora in poi voi sarete donna di cuori, e mai più risponderete picche!!!
- Grazie infinite vostra maestà!
- E non chiamatemi maestà! Qui il valor mio non è che mezzo punto…
Fuori pioveva. Un soffio di vento dalla finestra socchiusa e il castello crollò. Il fruscio fece svegliare Carolina.
Strano però: conta e riconta mancavano un nove napoletano e una regina francese

Concerto

di Genovesi Angela Petronio di S. Agata li Battiati (Catania), Segnalazione

Le emozioni vissute generano un concerto in cui tutto raggiunge un armonia

Echi d’albe vergini
S’annullano
In canti d’amore

Nudità carezzate
si sgretolano
in sogni impossibili

teorie di parole
si perdono in sospiri
di rossi tramonti

frammenti d’arcobaleno
suscitano nei tuoi occhi
un concerto

Quasi Notte

di Raffaella Manigas di Cagliari, Segnalazione

Profonda introspezione da parte dell’autrice che si immagina sola sul far della notte avvolta da un vento impetuoso.

Quasi notte.

E rompe
il vuoto
una bufera
d’immenso

Definitivo si staglia
al mio sguardo
mi urta come se
non ci fossi.

E quanta notte
ancora
rovescia addosso
il suo vento

Perpetuando il Sole

di Cipelli Giorgia Pieve d’Olmi (Cremona), Terza Classificata

Un soffio di lirismo, il ritmo cadenzato e la briosa polifonia costituiscono l’iter descrittivo dell’autrice.

Per effimera dolcezza
un intermittente silenzio
sgocciola
attraverso occhi d’oro
lacrime di miele
e scioglie dall’ombra
il mistero del lungo salmo
della vita.
da strepiti e polvere
partorisce l’Amore
e danza in vesti prestate
tacendo i sorrisi
arpeggiati nel cuore.
Perpetuando sole
mi calo oltre le pagine vuote
di amarezze scolorite
schizzate, nel centro,
da un'unica chiara preghiera,
estemporanea filosofia di vita
che scorre dimenticata
nella crisalide dei pensieri.

Lettera in Braille

di Paolo Palagonia (Catania), Secondo Classificato

“Un handicap é una limitazione che spesso diventa una prigione da cui è impossibile uscire.
Invece il protagonista della poesia vede con altri occhi più profondi e da compatito finisce quasi a compatire gli altri che “non vedono” quanta luminosità percepiscono i suoi “nuovi occhi”

Oltre i sei passi per dieci della mia stanza….
Le Colonne d’Ercole, il mugugno degli Oceani.
Chissà la forma delle case,
la lunghezza delle strade, il colore dei profumi….?
A rompere il mio tempo a grumi
la voce di mia madre, luce lunare,
che abbassa l’alta marea dei miei tarli.
Posato sulla soglia
ho imparato ad ascoltare il vento
a carezzare i raggi indolenti del sole autunnale,
ad inseguire come cavallette
voci, rumori… il lamento lontano dei cani.
Alcuni, passando, mi gettano cime di parole
nel pantano perché mi salvi….
di altri avverto il silenzio sospetto
gli sguardi distratti come su manichino
in vetrina di negozio.
A volto sprofondo in abissi di sconforto
… ma eccomi appeso, come per incanto,
ad un accordo di piano
ad una scia di profumo, al filo d’un ricordo….
Chissà che stupido agli occhi della gente
mentre rido alle storie sempre nuove
che ogni giorno mi racconto….

Nostos-alghià questione di poetica

di Nina Nasilli Padova, Prima Classificata

Con enfasi e cromatismi che si susseguono, l’autrice sprigiona sensazioni ed immagini in sequenze ben definite, recando per mano il proprio status lirico in un viaggio di ricordi e verità da accettare.
Per essa il silenzio è ancora l’inebriarsi della quotidianità.

Immagino gatti nascosti tra noi
e giovani scimmie senz’occhi né fiori.
Vedo pupille spuntare da palle lunari
e spiare l’esterno dal di dentro delle pietre – di città.
Poi mancano colori per questi disegni quadrati
e l’unto corposo dell’olio di lino.
Uguale – sulla tela biancorasa dei miei pensieri
s’abbozza uno schema principiante.
Ma non inventa oggetti per riempirlo
un pennello secco indurito d’inerzia.
La piuma s’incastra nei buchi erosi di improbabili muri
come un chiodo infisso senza ragione.
Non mostra – più – percorsi,
mi segna dei punti: parole lontane
di un magico gusto medievale
che allora potente apriva le porte
macigno di qualche ascosa verità – forse.
Solo Io insiste insofferente (indifferente) in un centro esterno dal mondo
e im-pietosisce ogni scrittura.
Quando noia mortale s’abbatte sui lembi di carne più esposta
la musa è vanitosa – s’imbelletta ed esce.
(Ma dio! È così immensa l’ansia di vivere – e l’angoscia di morire!?)
Non c’è stile adeguato – tapino o cortigiano.
Eppure il banale di oggi mi rassicura. Che c’è.
inebriandomi il silenzio
(Padova, primavera-estate 1997)

San Francesco d’Assisi

di Suardi Enzo Bianzano (Bergamo), Secondo Classificato

Francesco è stato un fedele interprete del messaggio evangelico tanto da essere definito un altro Cristo.
L’autore vede in questa utopia resa possibile l’esempio che tutta l’umanità deve seguire per tornare al suo Creatore

Santità di terra ed acqua di aria e fuoco
di vita sospesa
per gli altri sempre in gioco
di spiritualità accesa, fede difesa
ma mai al sicuro tra le pareti del vero.

Pari vestito d’utopia ma lasci un sogno degno
d’immaginaria via
da percorrere nel segno
dell’unico possibile amore
fondere nell’universo creato e Creatore.

Annulli nella sofferenza la breve esistenza
per investirla in un’idea che unisca l’umano
e lo renda interprete dell’intralciabile disegno
che alimenta un semplice sogno……
Anzitutto di dare abbiamo bisogno.

Frate Francesco

di Alfredo di Marco Capaccio Scalo (Salerno), Primo Classificato

Rielaborazione del messaggio francescano nei suoi elementi caratteristici di fraternità universale umiltà e pace a cui l’autore guarda con speranza come ad una luce che illumina un sentiero buio e pericoloso.

Nascesti come fiore nella pietra,
soffio di vento
sui germogli di grano,
riverbero di cielo nello stagno.
Di terra in terra seminasti amore:
fu mansueto il lupo,
festosi uccelli ti saltarono
in grembo a bere il tuo sorriso.
L’umiltà fu la tua forza
che lievitò gli oceani
fino a congiungerli alle stelle.
Frate Francesco, scheggia
di bontà piovuta fra gli ulivi,
ci hai regalato briciole di pace
battito di bianche ali
nel turbinio di pensieri tristi
sogni di nuova umanità
a viaggi d’infinito,
porta un refolo di luce
a me che annaspo
nel silenzio di vie senza ritorno
solo a combattere
l’oscuro autunno della delusione.