15/10/06

A Mio padre

2) Classificata Concetta Vaccaro – Augusta

Della persona cara che va via cerchiamo in noi ciò che ci ha lasciato. Quando si tratta di un padre non ci si limita a celebrarne il ricordo ma si cercano, dentro e fuori di noi, le tracce genetiche, l’appartenenza di sangue e d’intenti. E il desiderio più grande rimane sempre quello di averlo accanto.
Per aver descritto con estrema delicatezza il rapporto profondo che lega genitori e figli e che supera anche i limiti dell’esistenza.

A MIO PADRE

Se mi pregio di avere i tratti del tuo viso,
se nei tuoi modi mi riconosco,
se i miei pensieri sono quel che mi hai lasciato,
è perché sono parte di te.
Se nel cuore di chi ti ha conosciuto
ancora sei com’eri,
se del tuo ricordo è piena la mia vita,
è perché hai lasciato traccia di te.
Non un giorno in più di questa vita chiederei
per riaverti con me.

Frantumi di Maggio

di Alessandro – San Giovanni la Punta (CT), Primo Classificato

Un amore sospeso, una parola, amarti, che invece di avvicinare si spalma sulla distanza spazio-temporale che tiene divisi gli amanti. Ma bisogna scendere dal piedistallo sul quale viviamo come fossimo statue inermi e fingere con noi stessi una sicurezza che non possediamo ma che ci incoraggia.
Per aver rappresentato lo stato d’animo di chi, solo attraverso la finzione, riesce a liberarsi e a darsi coraggio per riuscire ad annullare le distanze.

La parola amarti
è appesa a questi giorni
come questi panni ammassati
ad orologi.
Mi stacco dal piedistallo
del mondo
fingendo di capire,
fingo anche di conoscerti.
La parola amarti
è appesa a questa distanza
percorsa da noi.
E mi sento capace per la prima volta.
La parola amarti
è cosi cosparsa tra noi.

Lavandaie

di Giordano Antonio - Palermo, Terzo Classificato

Quadretto domestico ambientato in una Palermo post-bellica in cui si cerca in vari modi di tornare a vivere.
Per aver affrontato con ironia il racconto di un periodo storico difficile, dove per qualcuno farisi u miricano poteva essere una vantaggiosa soluzione.

Dopo la cosiddetta Liberazione e cioè quando finirono i bombardamenti e, invece dei tedeschi, c’erano gli americani, tornammo tutti a Palermo nelle nostre case e si ripresero le abitudini di una volta.
Le lavabiancheria non erano ancora state inventate, almeno credo, e, ogni due settimane, c’era il cosiddetto rito della “lavata”. Si trattava di questo. Tranne le cose minute che venivano lavate a mano dalla nonna o dalla mamma, c’era quello che veniva definito “u grosso” e cioè tutta la biancheria per lavare la quale occorrevano giornate e donne particolarmente nerborute. Del resto pare che queste donne, le “lavannare” fossero persone di ceto molto basso e che facessero cose molto volgari tant’è che mia madre e mia nonna, quando volevano offendere qualcuna non molto educata, dicevano con disprezzo “E’ una lavannara”.
Ma l nostra era una “lavannara” speciale. Due giorni prima di effettuare quella operazione, chiamata “lavata”, veniva ad effettuare quella di “mettiri i rubbi a muoddo””. Sio infilavano lenzuola e altra biancheria pesante in una grande “pila” piena d’acqua e vi si spargeva una specie di detersivo di allora, una sorta di sapone, forse. La biancheria restava a macerare e, dopo due giorni, veniva donna Cuncietta che, a forza di polsi, torceva la roba, la “stricava” e la passava con il sapone molle su un aggeggio di legno scanalato, chiamato “striicaturi”, la “arricintava” più volte e poi la stendeva.
Donna Cuncietta mi pareva una persona per bene. Parlava in dialetto ma era rispettosa, lavoratrice e “aveva tanto verso” anche con noi bambini. Di solito la “lavata” si faceva di Sabato, ma quel giorno la nonna e la mamma aspettarono inutilmente. Donna Cuncietta non si fece vedere né quel giorno né quello successivo e, per evitare che la roba marcisse, si dovette pagare una certa donna Carmela che era la “lavandaia” della signora del secondo piano.
Telefono non ne avevamo e non si sapeva come raggiungere la donna per sapere cosa fosse accaduto. Mia nonna alzò l’ingegno e, pagandole la carrozza, disse a donna Carmela di andare fino a casa della nostra “lavandaia” per vedere cosa fosse successo. Donna Carmela tornò di pomeriggio trafelata e, con un cenno della mano, fece un cenno alla mamma e alla nonna di venire di alto perché doveva riferire una cosa segretissima. Naturalmente, curioso com’ero, mi avvicinai furtivamente per sentire cosa dicessero. Prima che potessero scoprirmi e mandarmi via a ceffoni, potei sentire solo: “Signora, a figghia di donna Cuncietta pigghiò u terno” e, abbassando ancora la voce, sillabò “Si ficiru u miricanu”.
Non riuscivo a darmi pace. Che cosa poteva significare quella frase? Perché gli americani potevano impedire alle donne perbene di fare la “lavata”? Che misteri ci potevano essere? Qui urgeva l’intervento di Inzerillo, un mio compagno edi scuola che, essendo ripetente, era piuttosto navigato e conosceva uomini e cose.
L’indomani, all’uscita della scuola, lo chiamai. Non lo avevo fatto prima perché il maestro, durante la lezione non voleva che parlassimo, altrimenti giù bacchettate. Inzerillo mi ascoltò con molta attenzione, poi mi diede una pacca sulle spalle e si mise a ridere sgangheratamente.
“V’a putiti scurdari a donna Cuncietta”. Si avvicinò e mi disse in gran segreto: “SO figghiaa’si fici zita cu qualche surdatu miricanu e uora su tutti a puostu”. Dopo ulteriori richieste di spiegazioni riuscii a comprendere che veramente donna Cuncietta non aveva più bisogno di lavorare. La figlia aveva accolto in casa un soldato americano il quale, trattando quella come la sua famiglia, non faceva mancare niente a nessuno, dava anche il superfluo e tutti vivevano nel benessere.
Naturalmente si coricava con la figlia di donna Cuncietta. Forse perché non c’era spazio, pensai io.
E un giorno in cui mia madre si lamentava perchè mancava tutto, perché non ci si poteva vestire, perché il cibo non bastava, perché si stava male, per placare la sua disperazione le dissi con naturalezza: “Mamma non fare così! , Perché non ci facciamo il miricanu pure noi?” Mi presi un ceffone così potente che lo ricordo ancora.

Sugheri rossi e drupe di piombo

di Salvatore – Augusta, Secondo Classificato

La malinconia per il tempo andato e per le persone care che non ci sono più, sono il leitmotiv di questo delicato racconto intimista che narra uno struggente ricordo d’infanzia.
Per aver rappresentato il legame muto tra due generazioni: quella ormai al tramonto porta via con sé una parte importante dell’altra che resta così orfana di gesti semplici ma significativi.

Siamo dietro la porta della prima stanza: quella con il pavimento scaccato che dà sulla strada prospiciente al mare.
Gli scuri sono aperti e tu stai lì, in piedi a stringere i piccolissimi nodi che legano le maniglie delle rete agganciata al pomello del chiavistello, mentre fuori l’inverno piovoso scorre battendo sui vetri. Mentre io bambino, seduto per terra con le gambe divaricate, giocherello lanciando sugheri rossi e drupe di piombo dentro il canestrino di canna intrecciata.
Di tanto in tanto guardi fuori. Rompi il silenzio e imprechi verso il levante e i superbi cavalloni dalle spumose criniere che lanciati sbrigliati al galoppo, desiderosi d’infrangersi, spingono contro la riva strappando sotto i vorticosi zoccoli nastri di posidonia.
Rompi il silenzio, Pronunci con lealtà parole disarcionanti, in faccia a una divinità cavalleggera.
Sacramenti contro la cattiva stagione che ti ha costretto ad alare la barca sul pendio della marina dove, ormeggiata al paletto, colla prua puntata al cielo sembra galleggiare tra le verdi onde delle rigogliose maie i cui petali attendono la primavera per far capolino e contrappuntare tutto di luminosissimo giallo.
Ti rivedo coll’immancabile coppola e l’asticciola a due crune che la tua mano, precisa e lesta, infila fra le maglie della fatale paratura, svolge il filo alla maniera della navicella nel telaio e stringe uno dopo l’altro quei piccolissimi nodi che, come gocce d’acqua rapite nella clessidra, sembrano misurare il resto del tuo tempo.
Siamo sul finire del tuo ultimo inverno.
L’inseparabile trinciato forte della Nazionale stretta tra le labbra, lentamente si riduce nel bianco filo di fumo che risale lungo il profilo del tuo caro viso di settantenne intento ad armare quelle reti perlate che non conobbero la calda tinta porporina né il fresco del mare, né la bella stagione: perché Dio non volle più accordarti, interrompendo per sempre anche il mio semplice gioco invernale coi sugheri rossi e le drupe di piombo da lanciare contro il canestrino di canna intrecciata.

Ma Cristiano no

di Mascia Alessandro - Augusta, Primo Classificato

In pochi secondi, il tempo di incrociare il proprio cammino per strada, si consuma l’incontro di due uomini, un tempo amici, poi separati da divergenze di idee e di fede. E’ lui, è Cristiano. “Cristiano è uno di quelli che l’amicizia…” Ma il prevedibile lascia il posto all’imprevisto, che non sortisce altro effetto che quello di non sortirne alcuno.
Per aver espresso, attraverso la perfetta circolarità del racconto, l’ineluttabile destrutturazione dei rapporti umani. Sapiente l’uso delle tecniche narrative del racconto breve, montato cinematograficamente come se fosse un vero “corto”.

Vado in edicola a comprare il giornale. La strada è sgombra, è presto e poi si sta preparando la festa del patrono. Passerà una processione di connette oranti che lanceranno dei fiori a terra. Per ora solo un uomo in lontananza che avanza pesante verso la mia direzione. Ho l’impressione di riconoscerne l’andatura ancor prima di notale la cartella scura e una breve cravatta logorata, chiusa in un colletto sdrucito: è Cristiano. Mi vede, capisce, e precipita lo sguardo in basso, quasi che il rimedio all’imbarazzo si trovi sull’asfalto. Quindici anni di intense divergenze intellettuali, anni di stima dichiarata in silenzio. Un’amicizia troncata innaturalmente dalla rottura tra me e quella fede. Quello stesso ideale che ci univa ora mi scaccia e tiene lontano. Ma Cristiano no. penso “Lui è uno di quelli che l’amicizia…”. Nel frattempo si avvicina, io a lui. Un tempo diluito dal timore che qualcosa di inatteso stia per accadere. Conservo i suoi segreti e lui sa dei miei tormenti. Rallento, voglio riabbracciarlo. E’ davvero vicino, ne sento il respiro ansante di chi non controllo più le emozioni. “ Cristiano è uno di quelli che l’amicizia…”. Solleva il viso smunto, d’un fiato mi guarda e schiude le labbra in una smorfia incerta che dura il tempo di oltrepassarmi. La strada torna ad essere sgombra, presto delle connette la animeranno. Io proseguo verso l’edicola dove comprerò il giornale

Quanto scrissi io

di Lippi Paola - Bologna, Secondo Classificato

La partecipazione ad un concorso letterario crea l’occasione per una giovane operaia di tirare fuori i ricordi della sua infanzia abusata, segnata dal pressoché totale disinteresse dei genitori nei suoi confronti. Indifferente al risultato del concorso, la donna ha già “metabolizzato” quella sofferenza che rimane però latente, come un rumore sordo nella sua vita. Il domani è una pagina ancora da scrivere.
Per aver raccontato con crudo realismo la storia di chi, dovendo fare i conti con l’altrui indifferenza, è costretta a “sporcarsi” nel fango della perversione per salvare la propria vita.

- Giulia, dai vieni qui, c’è un annuncio che sembra fatto apposta per te.” – chi mi chiamava era Ambra che seduta al centro del gruppo formato dalle mie compagne di lavoro, durante la pausa pranzo, leggeva sempre gli annunci del quotidiano locale nella speranza che una di noi potesse trovare un lavoro migliore.
- Mi avvicinai ubbidiente e lessi:
: “UN NUOVO AUTORE PER LA NOSTRA CITTA?” Palazzo Parini, 4 ore per scrivere un racconto a tema……… Primo classificato……… ecc.>
-Beh perché questa roba va bene per me? – chiesi scettica
-Perché tu sai scrivere Giulia, tu si che sei capace! – fece Ambra seguita in coro dalle altre ragazze.
-Pensaci Giulia, tutta la tua vita cambierebbe. – Proseguì Ambra- Non più otto/nove ore sempre uguali immerse nel caldo della fonderia. Non più…. – Ambra continuava a parlare ma io non l’ascoltavo più, tanto potevo immaginare cosa stesse dicendo. Con la mente riandavo al passato, quando la voce di Ambra mi giunse all’orecchio come un’eco lontano. Ambra continuava a ripetere: - Provaci Giulia, dai provaci Giulia, solo tu potresti farcela fra noi-!
Mentre mi incitava, a me venne in mente la canzone di De Andrè “Sparagli Piero, sparagli ora non è….” però poi Piero moriva ed io non avevo voglia di espormi ad inutili delusioni qualora, per un fortunato caso avessi vinto quel concorso. Ero lì, in fabbrica, un lavoro senza sorprese e un esistenza sempre uguale. Si poteva dire che non desiderassi altro: una vita talmente piatta da non correre il minimo rischio. E poi, le ragazze mi esortavano a partecipare a quel concorso letterario unicamente perché ero l’unica a saper scrivere senza errori e, secondo loro, a conoscere tante parole. Ma c’era una bella differenza fra non fare errori, conoscere un certo numero di vocaboli e scrivere un racconto. Ero, comunque, commossa da tanta ammirazione per la mia supposta cultura. La maggior parte delle mie compagne aveva terminato la scuola in quinta elementare. Quelle che avevano frequentato le medie per lo più non le aveva terminate. Probabilmente pensavano che io, come loro, avessi un basso livello di scolarizzazione, ma che a differenza di loro fossi una specie di genio autodidatta. Solo in sapevo che le cose non stavano così. Ero immersa in questi pensieri quando sentii la tavolata scandire “Provaci Giulia - Provaci Giulia – Provaci Giulia…”. Capii che se ci avessi provato era un po’ come se tutte loro partecipassero al concorso, le avrei rappresentate tutte. Sarebbe stata una bella soddisfazione: delle operaie a un concorso letterario!
Senza che me ne accorgessi mi sentii dire: - Va bene ragazze ci provo… grazie per la fiducia. -.
Il sabato pomeriggio seguente mi andai a scrivere al concorso e la domenica designata per il concorso, mi sedetti ubbidiente al banco indicatomi all’interno della sala della Biblioteca di Palazzo Parini. Il presidente della commissione esaminatrice lesse il titolo dell’argomento che avremmo dovuto sviluppare in un racconto lungo non più di due pagine:
“Ricordi d’infanzia: l’estate il suo profumo, la sua luce,. Le sensazioni di una bambina”.
Racconto in formato autobiografico o riferito a terzi.
Questo fu quanto scrissi io.

Le mie estati erano quelle della figlia del benzinaio del paese, un paese dove se passavano tre macchine al giorno potevamo far festa, dove l’unica distrazione era un bar pullulante di mosche e dove c’era un unico negozio che vendeva un po’ di tutto, dalla pasta sfusa, riposta in ampi barattoli di vetro, fino alla biancheria intima. Ricordo che avevo appena compiuto dieci anni e la mia vita era collocata in un tempo costituito da due sole stagioni L’inverno e l’estate.
L’inverno, cominciava, per me, in Ottobre quando riaprivano le scuole che io frequentavo come studentessa interna nel collegio delle povere figlie di Gesù. Il collegio aveva rappresentato, per i miei genitori, l’unica soluzione da quando la scuola del nostro paese era stata chiusa per insufficienza di alunni.
L’estate, invece, per me iniziava con la fine della scuola e il ritorno a casa.
Lo scorrere del tempo, nella mia vita, era davvero diviso a metà dal momento che le vacanze natalizie e quelle pasquali le passavo in collegio insieme a qualche altro bambino che, forse come me, aveva così assicurati cibo sufficiente ed un ambiente caldo. Poi, nel mio caso, non c’era nessuno che poteva venirmi a prendere: sia mio padre che mia madre dovevano lavorare. Tuttavia, nonostante che tutti e due non perdessero una sola ora di lavoro, i soldi non bastavano mai e bisognava ricorrere ogni mese al prestito di qualche strozzino. La situazione si era particolarmente aggravata dal momento che decisero di farmi continuare gli studi in collegio. Pertanto fin dal primo anno che frequentai la scuola lontano da casa, mio padre decise che, durante l’estate, avremmo lavorato in tre: mia madre continuò a fare la sarta presso l’atelier cittadino della signora Bice che raggiungeva alzandosi all’alba, mio padre smise di fare il benzinaio per divenire bracciante stagionale , ed io, che avevo appena terminato la IV elementare, presi il suo posto divenendo la versione estiva del benzinaio del paese.
Fu così che il mio nome, che fino a quel momento era stata Giulia, divenne per gli estranei Giulio, che i miei capelli furono tagliati fino ad essere quasi del tutto rasati e che il mio abbigliamento divenne unicamente un paio di braghe rosse corte, tipo quelle che si portano in spiaggia, una risicata maglietta blu, un cappello con la visiera e due vecchie scarpe da ginnastica senza lacci che mia madre sostituì con due elastici gialli. Ero divenuto un maschio perché durante le ore solitarie che avrei passato al distributore di servizio, secondo i miei genitori, questa nuova identità mi avrebbe tutelato dalle cattive intenzioni altrui. Solo che a lungo andare finii per non sapere, durante quelle estati che sembravano infinite, se fossi Giulio o Giulia oppure Giulio di giorno che per una strana metamorfosi si trasformava in Giulia la sera inoltrata quando dopo aver posato la bicicletta, mi ricongiungevo con mia madre. Gradualmente la confusione di genere divenne tale che, anche d’inverno, a scuola parlavo di me alternando il maschile al femminile.
La gente del paese rimase impassibile tanto alla mia trasformazione, quanto al lavoro che svolgevo al posto di mio padre, sebbene entrambe le cose avrebbero dovuto, se non altro sorprenderla. Solo i bambini rompevano questa sorta di silenziosa omertà prendendomi in giro “Giulia, Giulia è diventato Giulio, chi se la sposerà?” Ma presto anche i miei compagni di un tempo si stufarono di burlarsi di me, tanto più che io, per la vergogna, mi chiudevo a riccio senza reagire. In realtà credo che a quel punto, non ci fosse più alcuno a cui importasse di me. Del resto, la mia vita non aveva nulla in comune con quella dei miei coetanei né, tanto meno, con quella degli adulti essendo solo una drammatica pantomima di quella di entrambi.
Le estati della mia infanzia assunsero presto l’odore del sudore che ti cola sugli occhi fino a farteli bruciare, la carezza rovente di un sole infuocato che ti brucia il collo, le spalle facendoti sognare che il ghiaccio cada dal cielo su di te come la manna sugli ebrei. Seduta per ore sotto il sole attendevo che qualcuno, facendosi anche solo riempire il serbatoio della macchina, si rivolgesse a me ed io potessi per un breve istante sentirmi viva. A dire il vero c’era qualcuno che, forse, si accorgeva di me. Una volta mi misi a piangere disperatamente, nascondendo il viso tra le mani, dopo che un cliente maleducato mi aveva fatto lavare per ben quattro volte il vetro della sua auto, imprecando che ero un’incapace e una stupida, cadde dal balcone dell’unico palazzo vicino al distributore una pigna. Guardai in alto e vidi sola la signora Ada: una povera paralitica che muoveva solo l’arto destro e che passava gran parte del suo tempo sul terrazzino dell’abitazione che condivideva con la figlia. Accanto a lei aveva sempre una cesta di pigne delle quali amava il profumo.
Quando raccolsi la pigna piovuta dal cielo su di essa lessi il mio nome: Giulia. Il delicato gesto della signora Ada e quella parola, Giulia, il mio vero nome, mi fecero sentire che esistevo. Smisi di piangere e ritrovai il coraggio di andare avanti.
La mia seconda estate, passata al distributore, fu identica alla precedente, con l’odore di sudiciume, gas, benzina e quello di fogna che proveniva dal tombino poco distante dal distributore che mi trapanava le narici e i polmoni, il sapore salato del sudore e delle lacrime nascoste, il disgusto che mi rivoltava lo stomaco ogni volta che dovevo pulire il bagno della stazione di servizio.
L’unico cambiamento era avvenuto in me: mi ero indurita come se un’ ulteriore strato di pelle coprisse la mia rendendola invisibile quanto insensibile. Durante la giornata, evitavo accuratamente di guardare la signora Ada, come sempre seduta al balcone, poiché temevo che il solo vederla potesse ricordarmi quella parte di me che desideravo tenere sepolta. Così con l’espressione dura e sprezzante, passavo il tempo seduta su una vecchia gomma d’automobile, fumando senza sosta. Mi procuravo il tabacco accontentandomi dei mozziconi buttati nel bidone dell’immondizia o di quelli trovati per strada. In alcuni casi, non esitavo a mentire, chiedendo come mancia ai clienti qualche sigaretta da portare a mio nonno, che poi come una viziosa assaporavo fino a bruciarmi le mani.
Il dispregio per me stessa andava, ogni giorno, aumentando con il trascorrere delle ore, man mano che divenivo più sporca, più sudata, man mano che l’odore forte di benzina si impadroniva di me mescolandosi all’aroma amarognolo delle sigarette che fumavo. Inevitabilmente associai quella miscela maleodorante all’odore dell’estate.
Era Agosto, avevo 11 anni ed era la terza estate che trascorrevo al distributore di benzina. Un uomo, che tempo prima avevo visto, più volte, passare davanti al distributore, rallentare per poi continuare, quel giorno si fermò, fece il pieno e fu particolarmente gentile con me. Mi disse, infatti, che ero proprio un bel bambino, molto, molto bravo a servire i clienti, mi diede una mancia particolarmente abbondante e poi mi chiese se potevo accompagnarlo fino al bagno perché era un po’ stanco e gli girava la testa. Naturalmente l’accontentai, ma, appena fummo davanti alla toilette, mi tirò, con un atto veloce e furtivo, dentro con lui e chiuse la porta. Mi disse di non aver paura, che lui era un uomo buono che voleva bene ai bambini e intanto, con una mano mi stringeva fortemente la spalla impedendomi di muovermi e con l’altra mano, mi accarezzava le spalle, la schiena il sedere mentre sentivo il suo membro duro pigiare contro il mio corpo. Poi mi passò la mano sul seno ancora acerbo. Ansimando, disse che stavo solo facendogli un altro servizio, un servizio particolare che meritava di essere pagato molto bene. Avrei solo dovuto fare quanto lui mi avrebbe chiesto. Poi la sua mano giunse sul mio ventre e lentamente scivolò all’interno delle mutandine. A quel punto ebbe un sussulto e togliendo le mani dal mio corpo rimase indubbiamente inerme per la sorpresa di trovarsi davanti ad una femminuccia invece che ad un maschietto. Io che ero rimasta per tutto quel tempo immobile per la paura, tremando come una foglia e con il cuore che mi batteva all’impazzata riuscii finalmente a reagire. Approfittai del fatto che avesse mollato la presa sulla mia spalla per girarmi di scatto e tirargli, come mi aveva detto di fare mio padre “in caso di pericolo”, un calcio sui testicoli con tutte le forze rimastemi. Poi scappai fuori dalla toilette correndo verso il bar, ma non chiesi aiuto a nessuno. L’uomo non perse tempo, zoppicando, con una mano sul basso ventre, lo vidi attraversare l’area di servizio, chinarsi velocemente sul marciapiede che circondava la pompa di benzina, quindi raggiungere la macchina e ripartire in un battibaleno.
Quando, poco dopo, tornai al distributore trovai 1.000 lire tenute ferme da un sasso. Non capii, però, perché l’uomo mi avesse lasciato quei soldi. Li raccolsi ed assurdamente, mi sentii in colpa per averlo deluso. Mi sentivo sporca, bagnata sul retro dei pantaloncini. Andai alla toilette temendomi di essermi fatta la pipì addosso. Si, c’era una macchia sul retro dei miei pantaloncini, ma non aveva né la consistenza e né il colore della pipì. Quando la lavai mi accorsi che era viscida, appiccicosa e con uno schifoso odore dolciastro. Da quel momento per me l’estate assunse quell’odore, un odore che io stessa, purtroppo, finii per perpetuare.
In collegio, alla sera, avevo sentito Violetta, una mia compagna più grande, confidarsi con l’amica del letto accanto sussurrandole che talvolta, per mettere insieme i soldi necessari per comprarsi un paio di scarpe nuove o un vestito alla moda si era appartata nella stalla con qualche turista di passaggio, mentre non l’aveva mai fatto con la gente del luogo per evitare che venisse considerata come una ragazza di facili costumi. Capii solo qualcosa di quanto avveniva fra Violetta e lo sconosciuto, ma evidentemente, mi bastò per gestire la violenza subita in cambio di ricche mance. Con la scusa del sole abbagliante, chiesi a mia madre un vecchio lenzuolo da mettere a mò di tenda davanti all’unica finestra della casupola situata nell’area di servizio. In tal modo nessuno avrebbe potuto vedere all’interno del piccolo prefabbricato che fungeva da ufficio. Quindi se colui che si fermava a fare benzina era un uomo solo, che si mostrava gentile e complimentoso, lo guardavo con aria complice e gli chiedevo se aveva voglia di un “servizio particolare, un servizio più costoso degli altri”. Chi non capiva, si limitava trattarmi come un birbantello che cercava di ottenere qualche lira in più di mancia. Altri invece, dopo aver portato la macchina all’interno di un campo incolto con l’erba alta, ritornavano al distributore di benzina per seguirmi nella casupola dove, purché pagassero in anticipo, potevano ricevere i miei servigi. Dopo il tentativo di un anziano signore di penetrarmi, ma che fortunatamente si fermò davanti alle mie improvvise lacrime da bambina, ero solita, prima di entrare nella casupola con il cliente, stabilire limiti e regole dei nostri rapporti. Però se il cliente lo chiedeva ed era disposto a pagare una cifra extra, potevo concedergli un servizio extra.
Durante i due mesi che seguirono, portai a casa così tanti soldi che non solo mia madre poté pagare subito la retta del collegio che frequentavo e, persino, fare riparare il tetto della nostra casa. Acquistò anche una scatola di matite per me “visto che me le ero meritate”. Mia madre non mi chiese mai da che cosa dipendesse l’improvviso aumento di guadagni proveniente dalla pompa di benzina. Quando mio padre tornò a casa, dopo tre mesi passati per lo più lontano da noi, mia madre, evidentemente, trovò qualche buona scusa per quell’improvviso miglioramento economico, perché anche lui non mi chiese nulla. Quando mancavano, ormai pochi giorni all’inizio della scuola e quindi al mio ritorno in collegio, mia madre con l’espressione mite e un po’ timorosa mi propose di tornare a casa anche per le vacanze natalizie e quelle pasquali per dare una mano alla famiglia visto che ero così brava a gestire il distributore di benzina. Risposi con le parole di una donna “Perché non ti occupi tu, mamma, del distributore? Sono sicura che saresti molto più brava di me”. Mia madre non insistette. Quello stesso giorno a cena, papà mi domandò se quell’estate fosse stata molto faticosa per me. Con noncuranza risposi “Non molto”.
Se mi avesse chiesto che odore e che sapore avesse avuto forse non avrei esitato ad urlare quello dei soldi sporchi passati attraverso mani lerce, quello di uomini sudati eccitati di fronte a un corpo informe che fremono di piacere nel sporcarmi il corpo e l’anima e…., più di tutto, quello di una bambina che sentiva di valere così poco da lasciare che tutto questo avvenisse per poche migliaia di lire.
Le mie estati al distributore di benzina, ebbero fine improvvisamente due giorni prima che tornassi al collegio. Ricorso solo la signora Ada, come sempre al balcone, una macchina grigia che entrò nella piazzola del distributore e due operatori del servizio sociale che mi portarono via a forza. Non rividi più i miei genitori e crebbi in un orfanotrofio. Mi fecero studiare perché ero molto brava e riuscivo sempre ad aggiudicarmi la borsa di studio per continuare la scuola. Alla fine, ormai ospite dell’orfanotrofio come insegnate ed addetta a seconda delle emergenze, a molti altri lavori, mi laureai pure.
Poi me ne andai, cambia città e cercai lavoro in una fabbrica

Tre mesi dopo la mia partecipazione al concorso mi giunse una lettera. La busta in alto portava l’intestazione CONCORSO LETTERARIO “UN NUOVO AUTORE PER LA NOSTRA CITTA’”.
Non aprii mai quella busta. Per due giorni la tenni sul comodino senza mai avere neanche il coraggio di prenderla in mano. AL terzo giorno, decisi di mettere fine a quel piccolo tormento, presi la busta e con il suo contenuto la strappai in mille pezzi. Così non seppi mai come mi ero classificata al concorso. Ma sapevo che, almeno per il momento, la mia vita, per quanto squallida potesse sembrare, era sotto il mio controllo, protetta non dalla sofferenza in sé ma, sicuramente, dalla sofferenza incomprensibile. Ed è molto per chi nel passato non ha avuto la protezione di chi avrebbe dovuto esercitare questa funzione.
Per adesso, non desidero altro. Il futuro è una pagina bianca.

A un amico

di Flumiani Maria Cristina - Milano, Primo Classificato

Arriva sempre prima o poi il momento di tirare tutto fuori e “fare pulizia”, negli armadi di casa come nella nostra vita. L’occasionale ritrovamento di alcuni fogli scritti da un amore passato, scatena una valanga di ricordi sulla vita in comune di due persone tra loro diverse, ma che in realtà sono legate da un tratto comune del proprio carattere, l’essere fondamentalmente dei singles di natura.
Per aver espresso la solitudine di chi non è riuscito a superare l’unicità del proprio io e si chiude arroccandosi sulle proprie posizioni, ognuno su una diversa isola. Solo imparando a nuotare, ovvero a liberarsi delle proprie sovrastrutture, si potrà operare un riavvicinamento emozionale.

L’Altro giorno ho deciso di riordinare la casa; ho cominciato dagli armadi scartando i vestiti superati o mai messi, cercando nuove soluzioni per aumentare lo spazio disponibile; con la paura, propria di chi è disordinato, di non ricordare poi il nuovo posto scelto per alcuni oggetti di uso poco frequente (lampadine, rullini per la macchina fotografica, i gemelli di una camicia che non ho più ma che potrebbero tornare utili).
Ecco il sacchetto pieno di carta da regalo, fiocchi e biglietti di auguri; ma ci sono anche partecipazioni di matrimonio, cartoline ricevute dagli amici o acquistate per ricordare il luoghi visitati. Improvvisamente, mi trovo davanti dei fogli coperti dalla tua calligrafia minuta e ordinata; e vecchie situazioni rimbalzano davanti a me dal passato: ecco il fax dove avevi disegnato la cartina del “nostro nido”, ormai illeggibile; che emozione quando l’avevo ricevuto! Questo foglio invece accompagnava quel carillon che mi avevi portato da Parigi, ora appeso alla maniglia della porta.
Adesso tutto è passato – mi rimangono queste righe, le fotografie e il ricordo di quel tuo carattere complicato come il nome.
Ti ricordi come erano belle quelle serate trascorse a leggere sul divano? Rare e quindi tanto più apprezzate perché la tua natura insofferente ti impediva di rilassarti a lungo; molto stressante per chi ti stava vicino, consapevole della brevità di quei momenti di pace. Ricordo anche come ti arrabbiavi se invadevo il tuo spazio sparpagliando libri e giornali: in silenzio, me li sbattevi addosso, corrucciato.
Di te mi piaceva la molteplicità degli interessi – la moto, i viaggi, la lettura, le mostre. Ricordo che leggevi due libri contemporaneamente; ti dirò che ho sempre pensato che così non potevi apprezzarne nessuno.
Quanto alla passione per l’arte culinaria l’avevi delegata a me che sono sempre a dieta! Mi rimane una folta collezione di riviste gastronomiche che non so mai dove mettere – prima erano in camera, adesso sono in cucina, prima o poi finiranno sul balcone.
E i viaggi? Bellissimi e articolati, si traducevano sempre in spostamenti continui e camminate interminabili; ti dirò che per me erano un incubo e alla partenza sognavo già il ritorno.
Tu amavi l’ordine, la perfezione; a me è sempre piaciuta la casa “vissuta” – la trovo allegra, accogliente, rilassante; avrei tanto voluto avere un gatto ma la tua mania per l’igiene e la pulizia me l’hanno impedito; adesso ne ho due che adoro; ma confesso che mi hanno distrutto il salotto, tende comprese.
Non ho rimpianti perché come dicevi sono “zitella di carattere”; amo la mia libertà. Ma forse questo è un lato che abbiamo in comune perché anche tu rifuggi i condizionamenti.
Adesso siamo su due isole separati dalle nostre differenze.
Forse, in futuro, liberi da rancori e pregiudizi, impareremo a nuotare e ci faremo compagnia.

Volontà

di Fernanda Mulin de Assis – Rio de Janeiro, Premio Speciale ACM

Vivere la propria esistenza intensamente, affrontando con coraggio tutte le situazioni che la vita ci mette davanti con la forza della volontà.
Per aver rappresentato con un linguaggio ricco di immagini forti e suggestive il difficile mestiere di affrontare la vita di ogni giorno

Aprire le tende della vera faccia
spogliare le cicatrici dei miraggi.
ed interpretare il mio proprio ruolo.
Andare dove la fortuna mi manda,
avanzare nei passi tutta la pusillanimità,
delle pietre che mi gettano, produrre luce
e trasformare il dolor in poesia.
Far rinascere i sogni già disfatti,
far uso del cuore più dell’acqua.
Aprire fonti di fede dentro al petto
e non credere mai che tutto finisce.
Lacerare la venuta muta del silenzio
trarre il sentimento di questo lavoro,
spezzare per la vita mio intenso desiderio,
e strappare dal cuore la parola.
E quando fallisca la mia speranza,
tacendo questa voglia che mi sveglia,
ed io non possa seguire camminando,
nella lirica missione di essere poeta,
esser capace di portare nelle mani un ricordo.
Piangere per quello che tace dentro di me,
sentendo ancora un sapore della volontà.
Esser capace ancora, alla fine,
di lasciar scorrere un’ultima preghiera,
creando, ormai un verso solo di pace!

Sognatore

di Talio Mario Giorgio - Caltanissetta, Terzo Classificato

Alla richiesta di pace del poeta il mondo sembra quasi sordo, e l’indifferenza dei più trasforma il suo grido di dolore in puro flatus vocis. Il poeta è così un sognatore, consapevole del fatto che ben presto il suo sogno di pace, fraternità e amore finirà per dissolversi.
Per aver espresso, con versi chiari e con registro linguistico colloquiale, la consapevolezza del singolo di essere una voce sola nel deserto dell’indifferenza comune, di combattere da solo, di essere un sognatore.

Spesso domando al mondo
quando sarà oasi di pace,
fraternità d’amore…?
E sarò un pazzo amante
di parole dimenticate
che, nel deserto vibrano
e si disperdono
tra dune d’indifferenza;
verità di neve
sotto raggi cocenti d’orgoglio.
Sognatore,
resterò appeso
alla coda d’una nuvola
che, lentamente,
si dissolve.

Persa nel dolore

di Cappelloni Gastone – Sant’Angelo in Vado (PU), Secondo Classificato

Quando un dolore ci annienta e ci si perde in esso, non si può fare altro che comunicare, attraverso la poesia, la difficoltà di uscirne e operare un lavoro di scavo interiore andando alla ricerca della nostra più profonda essenza.
Per aver rappresentato il difficile cammino di chi “torna” a fatica dalla dimensione del dolore.

Persa nel dolore
cantavi
del non facile ritorno,
aprendo il libro
d’infelice rifugio
lentamente cancellavi
rinata quiete
rimanendo legata
a confessate semplicità.

Qualcosa da ritrovare

Non Plus Ultra

di Pepe Dario - Ragusa, Primo Classificato
Un colpo inferto duramente, inaspettatamente, ed il dolore della conseguente ferita, lasciano l’animo stupito e poi affranto nel vedere crollare il muro costruito su instabili certezze. Poi l’abbandono, il lutto, il “chiamarsi fuori” da una situazione ormai insostenibile, col desiderio, però, di rimanere legato al ricordo di ciò che è stato.
Per aver rappresentato, attraverso un sapiente uso delle figure metriche e retoriche, la consapevolezza di chi, prendendo atto della fine dolorosa di un segmento della propria vita e dell’inizio di un altro, comprende quanto sia importante “fissare” il ricordo di questo passaggio.

Ebbi soltanto un attimo per intascare lo stupore
nel ritrovarmi questo graffio fra le dita.
Alle mie spalle il muro si sbriciolava già
cercando un angolo in cui acquattarsi
irritato con l’estate.
Un suono freddo di conchiglie si dissolveva in lontananza
abbracciato alle grida dei giochi infantili.
Guardavo con amarezza la porta ormai chiusa
riassaporando i giri di chiave nella toppa
per paura di dimenticarli

14/10/06

Premio Xifonia 2006

Premiati: Annunziata Lia Lantieri e Anna Malvica


Premio Agorà 2006

Sezione Poesia a tema libero
Primo Classificato: Pepe Dario - Ragusa con "Non Plus Ultra"
Secondo Classificato: Cappelloni Gastone – Sant’Angelo in Vado (PU) con "Persa nel dolore"
Terzo Classificato: Talio Mario Giorgio - Caltanissetta con "Sognatore"
Premio Speciale ACM: Fernanda Mulin de Assis – Rio de Janeiro con "Volontà"

Sezione Racconti
Primo Classificato: Flumiani Maria Cristina - Milano con "A un amico"
Secondo Classificato: Lippi Paola - Bologna con "Quanto scrissi io"

Sezione I Conti Corti
Primo Classificato: Mascia Alessandro - Augusta con "ma Cristiano no"
Secondo Classificato: Salvatore – Augusta con "Sugheri rossi e drupe di piombo"
Terzo Classificato: Giordano Antonio - Palermo con "Lavandaie"

Sezione I Linguaggi dell'anima: nuove forme di poesia
Primo Classificato: Alessandro – San Giovanni la Punta (CT) con "Frantumi di Maggio"
Secondo Classificato: Vaccaro Concetta - Augusta con "A Mio padre"



Rassegna Stampa

01/05/06

Viaggiatore in Augusta

Gente fiera,
di solare passionalità
con l’affetto nell’animo
i cuore nel perpetuo.

Augusta;
città che regala
palpitanti espressioni
che fa riscoprire “il gusto”
di mai accantonati valori.

Amata, sarà la meta!

E col tempo continuerò
a desiderarla…
mentalmente mi farò
trascinare
dalla maestosità del mare,
che bacia
mirabile Lembo
d’incontaminata semplicità
e mi fa accomunare
e soggiogare
al linguaggio dell’invocazione



Cappelloni Gastone

Quasimodo

La sera quando tutto tace
e oscuri pensieri evaporano
lasciando il posto alla serenità
mi trasporti tra i tuoi sogni
Con suoni di marranzani e di conchiglie
soffiati dai pastori, o andare
su e giù per il Platanì
o le arse terre del Sud o per navigli
inghirlandati di nebbie
ed urla di mitiche sirene.

E’ un andare felice tra le tue rime,
momenti veri che mi ricordano l’infanzia
con le sue gioie, con i suoi stenti.

Ma noi ragazzi di quel tempo
come i tutti i ragazzi della vista
non capivamo le lacrime della “madre”
i suoi deboli sospiri e sognavamo
ad ogni nuvola pozzanghere e arcobaleni
mentre la zingara ci donava la fortuna
all’indimenticabile suono di un organino



Lino Giarrusso

Tratto da "I venditori ambulanti"

A volte giocando penzolanti dal carramatto di Baldassarre, capitava di incrociare u ricuttaru, e allora volentieri saltavamo giù per avvicinarsi a lui. Il baffuto venditore per poter raggiungere il nostro paese con il latticino ancora caldo, aveva armato con un gran contenitore cubico in legno il portapacchi posteriore della mitica motocicletta rossa Motom. Container che ogni mattina colmava di cavagne grondandi ancora il tiepido siero giallastro del latte, sistemandole tutte accucciate, testa e coda, a solari, alla maniera di quando si salano le acciughe nel barilotto; trovando in un cantuccio anche lo spazio per alcune fiscelle di giunco colme fino all’orlo di quell’ottima ricotta di latte di pecora.
Mentre il ricottaro era intento a fare scivolare il molle e fumante ripieno delle cavagne nei piatti tenuti in mano dalle donne, noi bambini infilavamo l’indice negli astucci di canna, che di volta in volta svuotava e appendeva per il pendutolo di raffia all’uncino rugginoso attaccato fuori il cubo, per rastrellarvi i residui grumetti di ricotta rimasti attaccati e buoni da leccare.
Soltanto cento liberatorie lire mi affrancavano da quel gioco, permettendomi di comprarne una piena tutta per me che mi deliziavo a sorbire come fosse una bibita , mettendo in festa il mio palato che con indicibile piacere pasteggiava e assaporava il gusto del latte di pecora, insaporito da quella leggera punta di fumo provocato dalla legna consumata dal fuoco che la mattina presto alla mànnira aveva scaldato la quarara. Infine, dopo averla svuotata, appagato appendevo la lavagna all’uncino, ma non prima di averci guardato dentro ed essermi assicurato d’ averla nettata a dovere.
Quando al ricottaro non s’avvicinava più nessun cliente, egli dava l’ultimo richiamo, un colpo secco di pedale del motore e, togliendo il cavalletto, montava in sella, e ritornava a gravare con l’intero negozio sulle sommesse ruote della Motom.
Rivedo ancora oggi quell’uomo baffuto montare in arcione alla Motom e puntare con le gambe divaricate i piedi a terra, riassettarsi la coppola dalla visiera unta, e dare il mezzo giro alla manopola dell’acceleratore facendo scoppiettare il motore, che nonostante il peso di quel negozio e del suo negoziante, lasciandosi dietro una nuvola di fumo, riesce ugualmente a dare l’abbrivio a quel corpo unico, facendolo scivolare verso un’altra cantoniera, verso una nuova sosta dove bandire il prelibato latticino gridando <>
C’erano Salvatore, Torretta e Ferraguto, che pedalavano in sella alle loro chimere per metà prore di barca e per metà tricicli. Esse verniciate di bianco e bordate d’azzurro, sulle murate avevano dipinto in elegante corsivo la scritta “Gelati”, mentre nel cuore ghiacciato del loro fasciame trasportavano granite al gusto di limone, mandorla e cacao.
I gilatari, sin dalle prime ore del mattino si annunciavano con un caratteristico sibilo acuto e intermittente del fischietto, a cui seguiva il grido <<>. E il loro passaggio non poteva che essere l’arrivo del fresco companatico per la particolare colazione estiva dei paesani fatta, per l’appunto, di pane e granita.
Passava per le vie anche l’indimenticabile venditore da Citrata i Morica, dolce realizzato con zucchero e scorza di cedro. L’omone, con la coppola dall’aspetto piacevole, indossava sempre sopra una candida camicia il gilè nero. Spingendo a braccia il carrettino, squarciava il silenzio del primo pomeriggio con la sua possente voce tenorile, magistralmente usata per bandire la cedrata. Egli è stato l’unico venditore ambulante forestiero, ad avere riconoscenza della benevola fiducia dei suoi clienti del mio paese. Riconoscenza per oltre cinquant’anni d’interrotta attività, manifestata per sua volontà dal figlio sui manifesti listati a lutto che annunciarono alla città la sua dipartita. Mesta notizia che procurò a molti la sincera commozione, oltre il risentire l’eco del suo grido dal registro acuto ed esteso che diceva <<>>.
Rammento che, puntualmente tutte le sere sotto la gradinata del Cinema Kursaal, sostava un carrettino illuminato da una piccola lampara da pesca alimentata a gas, dove si vendevano lupini, semi di zucca salti, noccioline americane, ceci e fave abbrustoliti. Il luppinaro pesava la merce sulla bilancetta appesa ad una struttura di legno dotata di cassettino, dove apparivano ormai sbiaditi i motivi ornamentali presi dal carretto siciliano e un fiocco rosso scolorito, da cui penzolava il caratteristico amuleto a forma di corno, elemento indispensabile per tenere lontano le forze malefiche e pericolose sprigionate dai possibili occhi rassi e mmiriusi.
Per le strade capitava d’incontrare anche chiddu do ferru vecchiu, che per poche lire acquistava qualsiasi cosa fatta di metallo prediligendo però quelle di rame. Oppure u siggiaru, che girava con gli arnesi sistemati nel tascapane portato a bandoliera, e lavorava davanti le porte riparando le maglie di giunco dei sedili di qualche Thonet d’epoca o sostituendoli completamente con dei nuovi di compensato stampato, certamente più sbrigativo ed economico. E ancora u mmola forbici e cutedda, l’arrotino anche lui con la Motom rossa, con la grossa pietra mola fissata sul portapacchi posteriore e collegata per mezzo di una cinghia alla ruota motrice.

Il coccio

Un angolo di Augusta
affacciato sul mare,
e immerso fra fiori e piante,
da cui vedere
il sorgere del sole, o godersi la frescura
nelle calde sere estive.
La pietra giallina e porosa
appare come la pelle
di un essere vivente
che senza tempo
é diventato custode
di tante emozioni



Andrea Durante

La Croce del Venerdì Santo

Gli ultimi istanti di notte
sono volati via,
spinti lievemente
come da un refolo dall’aurora.
Lentamente le acque del Xifonio
s’offrono al nuovo mattino.
Sulla piazza delle Grazie
il sole svela la spoglia croce,
immagine della pasqua augustana.
Sulla strada piena di gente,
s’ode solo il rumore dei passi
e il toc toc dei bastoni dei babbalucchi.
Avanza cadenzata
l’urna del Cristo,
e sulla piazza
la luce del giorno
illumina la scena,
del chicco di grano morto
per portare molto frutto.


Andrea Durante

Vanedda‘ i San Giuseppi

Vanedda c’ha m’ha vistu nicareddu
unni la vita mia passau d’incantu,
sprucchiatu allura comu ‘n passareddu
dilizia di’ la genti a’ lu so’ cantu.
Vanedda, ricurdanniti, iu chianciu
Lu tempu di’ li tempi mei passati,
e speru e a ‘dda speranza iu m’agganciu
c’ha li ricordi nun si su’ affussati.
Penzu a cu’ t’abbitava o vanidduzza
di ‘m pizzu a l’autru pizzu di la strata,
‘ a vecchia, a signorina e la nicuzza
vanedda ‘ i San Giuseppi mai scurdata.
Lu lettu to’ di fangu, petri e terra
era lu nostru campu di battagghia,
unni c’ha ni facevumu la scerra
e ni fineva a corpa ‘i balli ‘i pagghia.
Cu’ ci pinsava a ‘st’ira assai muderna
cu’ è c’ha ci pinsava a’ lu prugressu,
vanedda mia ddu’ tempu chiù nun torna
chistu’ è lu tempu c’ha ni porta ‘o fossu.
Ora, nunn’è pi’ diri lu to’ vantu
c’ha scrittu ‘sti du’ versi di puisia,
a tutti banni iu sempri t’avantu
pirchì ricordu ‘a giuvinizza mia.
Nu mi li scordu no li cosi antichi
e nun mi scordu la mo’ giuvintù,
l’amici Iani, Peppi Turi e Michi
tempu passatu c’ha nun torna cchiù.
Finisciu li mo’ versi e lu mo’ cantu
e nun ti scordu cchiù stratuzza mia,
vanedda ‘i San Giuseppi si’ lu vantu
da’ giuvinizza e la vicchiania mia.




Fortunato Armenio (Augusta Settembre – Ottobre 1983)

Vecchio vicolo (vicolo cappuccini)

Ed ora sono un vecchio vicolo
col pozzo coperto dalle erbacce
e il fico a fianco come un paladino.
Sono un vecchio vicolo
senza schiamazzi di bimbi che si azzuffano
né il vociar sottile delle comari
col suo da farsi, né galli
alla stella dell’alba
ad annunciare il giorno.
Sono rimasto solo
sulle finestre non più verde basilico
né panni appesi ad asciugare al sole
né l’asino irrequieto pronto a valicar
nuovi sentieri, né il canto
d’una serenata alla bella del cuore.
M’hanno lasciato solo
per accendere nuovi falò
in tipiche alveari di cemento
dove non s’ode l’allegria dei vicoli
Ma sospirati ‘giorno? E buonasera




Lino Giarrusso

Porta Spagnola (memorie di ergastolano)

Porta spagnola
incubo di disperazione
e di dolore
odo i passi strascicati
e le allegre risate
di fidanzati
nel ricordo triste come fosse ieri.
Ieri e oggi
intermezzo di tempo
e un grandissimo nulla


Lino Giarrusso

Augusta Mia

Augusta mia, terra di suli e d’amuri,
tutta vagnata di l’azzurru mari,
quantu ti fici, si, ppi fariti ammirari.
Magari ca ne seculi fu amara la to sorti,
picchi troppi guai ti purtarunu morti
guerri e tirrimoti suppurtasti,
ma sempri cchiù bedda rinascisti.
Ricchezza si ricava do to portu,
magari e stranieri da cunfortu!
Vaddannu a tia si scordunu di suffriri
e tutti ti salutunu prima di partiri
prigannu Diu di farli riturnari
picchi a to aurora vonnu ancora ammirari.
Ti vogghiu beni assai,
cara e duci città natia,
è comu na malatia
ca di tia nun mi fa scurdari mai;
e si sugnu custrittu gnornu a te lassari,
intra lu senu to, prestu vogghiu turnari.
Ma nta na città nun si è tutti rosi e ciuri,
c’è sempri na spina ch’a genti fa trivuliari:
sunnu li politici to ch’annu bisognu di curi
ppi putiri onestamente guvirnari;
accussì sta genti nostra finisci di suffriri
e di paci e binissiri tutti quanti gudiri.


E. Buccheri

Serata Ustanisi

Augusta Mia

Porta Spagnola (memorie di ergastolano)

Vecchio vicolo (vicolo cappuccini)

Vanedda‘ i San Giuseppi

La Croce del Venerdì Santo

Il coccio

Tratto da "I Venditori Ambulanti" di Romano Salvatore

Quasimodo


Viaggiatore in Augusta