15/10/06

Quanto scrissi io

di Lippi Paola - Bologna, Secondo Classificato

La partecipazione ad un concorso letterario crea l’occasione per una giovane operaia di tirare fuori i ricordi della sua infanzia abusata, segnata dal pressoché totale disinteresse dei genitori nei suoi confronti. Indifferente al risultato del concorso, la donna ha già “metabolizzato” quella sofferenza che rimane però latente, come un rumore sordo nella sua vita. Il domani è una pagina ancora da scrivere.
Per aver raccontato con crudo realismo la storia di chi, dovendo fare i conti con l’altrui indifferenza, è costretta a “sporcarsi” nel fango della perversione per salvare la propria vita.

- Giulia, dai vieni qui, c’è un annuncio che sembra fatto apposta per te.” – chi mi chiamava era Ambra che seduta al centro del gruppo formato dalle mie compagne di lavoro, durante la pausa pranzo, leggeva sempre gli annunci del quotidiano locale nella speranza che una di noi potesse trovare un lavoro migliore.
- Mi avvicinai ubbidiente e lessi:
: “UN NUOVO AUTORE PER LA NOSTRA CITTA?” Palazzo Parini, 4 ore per scrivere un racconto a tema……… Primo classificato……… ecc.>
-Beh perché questa roba va bene per me? – chiesi scettica
-Perché tu sai scrivere Giulia, tu si che sei capace! – fece Ambra seguita in coro dalle altre ragazze.
-Pensaci Giulia, tutta la tua vita cambierebbe. – Proseguì Ambra- Non più otto/nove ore sempre uguali immerse nel caldo della fonderia. Non più…. – Ambra continuava a parlare ma io non l’ascoltavo più, tanto potevo immaginare cosa stesse dicendo. Con la mente riandavo al passato, quando la voce di Ambra mi giunse all’orecchio come un’eco lontano. Ambra continuava a ripetere: - Provaci Giulia, dai provaci Giulia, solo tu potresti farcela fra noi-!
Mentre mi incitava, a me venne in mente la canzone di De Andrè “Sparagli Piero, sparagli ora non è….” però poi Piero moriva ed io non avevo voglia di espormi ad inutili delusioni qualora, per un fortunato caso avessi vinto quel concorso. Ero lì, in fabbrica, un lavoro senza sorprese e un esistenza sempre uguale. Si poteva dire che non desiderassi altro: una vita talmente piatta da non correre il minimo rischio. E poi, le ragazze mi esortavano a partecipare a quel concorso letterario unicamente perché ero l’unica a saper scrivere senza errori e, secondo loro, a conoscere tante parole. Ma c’era una bella differenza fra non fare errori, conoscere un certo numero di vocaboli e scrivere un racconto. Ero, comunque, commossa da tanta ammirazione per la mia supposta cultura. La maggior parte delle mie compagne aveva terminato la scuola in quinta elementare. Quelle che avevano frequentato le medie per lo più non le aveva terminate. Probabilmente pensavano che io, come loro, avessi un basso livello di scolarizzazione, ma che a differenza di loro fossi una specie di genio autodidatta. Solo in sapevo che le cose non stavano così. Ero immersa in questi pensieri quando sentii la tavolata scandire “Provaci Giulia - Provaci Giulia – Provaci Giulia…”. Capii che se ci avessi provato era un po’ come se tutte loro partecipassero al concorso, le avrei rappresentate tutte. Sarebbe stata una bella soddisfazione: delle operaie a un concorso letterario!
Senza che me ne accorgessi mi sentii dire: - Va bene ragazze ci provo… grazie per la fiducia. -.
Il sabato pomeriggio seguente mi andai a scrivere al concorso e la domenica designata per il concorso, mi sedetti ubbidiente al banco indicatomi all’interno della sala della Biblioteca di Palazzo Parini. Il presidente della commissione esaminatrice lesse il titolo dell’argomento che avremmo dovuto sviluppare in un racconto lungo non più di due pagine:
“Ricordi d’infanzia: l’estate il suo profumo, la sua luce,. Le sensazioni di una bambina”.
Racconto in formato autobiografico o riferito a terzi.
Questo fu quanto scrissi io.

Le mie estati erano quelle della figlia del benzinaio del paese, un paese dove se passavano tre macchine al giorno potevamo far festa, dove l’unica distrazione era un bar pullulante di mosche e dove c’era un unico negozio che vendeva un po’ di tutto, dalla pasta sfusa, riposta in ampi barattoli di vetro, fino alla biancheria intima. Ricordo che avevo appena compiuto dieci anni e la mia vita era collocata in un tempo costituito da due sole stagioni L’inverno e l’estate.
L’inverno, cominciava, per me, in Ottobre quando riaprivano le scuole che io frequentavo come studentessa interna nel collegio delle povere figlie di Gesù. Il collegio aveva rappresentato, per i miei genitori, l’unica soluzione da quando la scuola del nostro paese era stata chiusa per insufficienza di alunni.
L’estate, invece, per me iniziava con la fine della scuola e il ritorno a casa.
Lo scorrere del tempo, nella mia vita, era davvero diviso a metà dal momento che le vacanze natalizie e quelle pasquali le passavo in collegio insieme a qualche altro bambino che, forse come me, aveva così assicurati cibo sufficiente ed un ambiente caldo. Poi, nel mio caso, non c’era nessuno che poteva venirmi a prendere: sia mio padre che mia madre dovevano lavorare. Tuttavia, nonostante che tutti e due non perdessero una sola ora di lavoro, i soldi non bastavano mai e bisognava ricorrere ogni mese al prestito di qualche strozzino. La situazione si era particolarmente aggravata dal momento che decisero di farmi continuare gli studi in collegio. Pertanto fin dal primo anno che frequentai la scuola lontano da casa, mio padre decise che, durante l’estate, avremmo lavorato in tre: mia madre continuò a fare la sarta presso l’atelier cittadino della signora Bice che raggiungeva alzandosi all’alba, mio padre smise di fare il benzinaio per divenire bracciante stagionale , ed io, che avevo appena terminato la IV elementare, presi il suo posto divenendo la versione estiva del benzinaio del paese.
Fu così che il mio nome, che fino a quel momento era stata Giulia, divenne per gli estranei Giulio, che i miei capelli furono tagliati fino ad essere quasi del tutto rasati e che il mio abbigliamento divenne unicamente un paio di braghe rosse corte, tipo quelle che si portano in spiaggia, una risicata maglietta blu, un cappello con la visiera e due vecchie scarpe da ginnastica senza lacci che mia madre sostituì con due elastici gialli. Ero divenuto un maschio perché durante le ore solitarie che avrei passato al distributore di servizio, secondo i miei genitori, questa nuova identità mi avrebbe tutelato dalle cattive intenzioni altrui. Solo che a lungo andare finii per non sapere, durante quelle estati che sembravano infinite, se fossi Giulio o Giulia oppure Giulio di giorno che per una strana metamorfosi si trasformava in Giulia la sera inoltrata quando dopo aver posato la bicicletta, mi ricongiungevo con mia madre. Gradualmente la confusione di genere divenne tale che, anche d’inverno, a scuola parlavo di me alternando il maschile al femminile.
La gente del paese rimase impassibile tanto alla mia trasformazione, quanto al lavoro che svolgevo al posto di mio padre, sebbene entrambe le cose avrebbero dovuto, se non altro sorprenderla. Solo i bambini rompevano questa sorta di silenziosa omertà prendendomi in giro “Giulia, Giulia è diventato Giulio, chi se la sposerà?” Ma presto anche i miei compagni di un tempo si stufarono di burlarsi di me, tanto più che io, per la vergogna, mi chiudevo a riccio senza reagire. In realtà credo che a quel punto, non ci fosse più alcuno a cui importasse di me. Del resto, la mia vita non aveva nulla in comune con quella dei miei coetanei né, tanto meno, con quella degli adulti essendo solo una drammatica pantomima di quella di entrambi.
Le estati della mia infanzia assunsero presto l’odore del sudore che ti cola sugli occhi fino a farteli bruciare, la carezza rovente di un sole infuocato che ti brucia il collo, le spalle facendoti sognare che il ghiaccio cada dal cielo su di te come la manna sugli ebrei. Seduta per ore sotto il sole attendevo che qualcuno, facendosi anche solo riempire il serbatoio della macchina, si rivolgesse a me ed io potessi per un breve istante sentirmi viva. A dire il vero c’era qualcuno che, forse, si accorgeva di me. Una volta mi misi a piangere disperatamente, nascondendo il viso tra le mani, dopo che un cliente maleducato mi aveva fatto lavare per ben quattro volte il vetro della sua auto, imprecando che ero un’incapace e una stupida, cadde dal balcone dell’unico palazzo vicino al distributore una pigna. Guardai in alto e vidi sola la signora Ada: una povera paralitica che muoveva solo l’arto destro e che passava gran parte del suo tempo sul terrazzino dell’abitazione che condivideva con la figlia. Accanto a lei aveva sempre una cesta di pigne delle quali amava il profumo.
Quando raccolsi la pigna piovuta dal cielo su di essa lessi il mio nome: Giulia. Il delicato gesto della signora Ada e quella parola, Giulia, il mio vero nome, mi fecero sentire che esistevo. Smisi di piangere e ritrovai il coraggio di andare avanti.
La mia seconda estate, passata al distributore, fu identica alla precedente, con l’odore di sudiciume, gas, benzina e quello di fogna che proveniva dal tombino poco distante dal distributore che mi trapanava le narici e i polmoni, il sapore salato del sudore e delle lacrime nascoste, il disgusto che mi rivoltava lo stomaco ogni volta che dovevo pulire il bagno della stazione di servizio.
L’unico cambiamento era avvenuto in me: mi ero indurita come se un’ ulteriore strato di pelle coprisse la mia rendendola invisibile quanto insensibile. Durante la giornata, evitavo accuratamente di guardare la signora Ada, come sempre seduta al balcone, poiché temevo che il solo vederla potesse ricordarmi quella parte di me che desideravo tenere sepolta. Così con l’espressione dura e sprezzante, passavo il tempo seduta su una vecchia gomma d’automobile, fumando senza sosta. Mi procuravo il tabacco accontentandomi dei mozziconi buttati nel bidone dell’immondizia o di quelli trovati per strada. In alcuni casi, non esitavo a mentire, chiedendo come mancia ai clienti qualche sigaretta da portare a mio nonno, che poi come una viziosa assaporavo fino a bruciarmi le mani.
Il dispregio per me stessa andava, ogni giorno, aumentando con il trascorrere delle ore, man mano che divenivo più sporca, più sudata, man mano che l’odore forte di benzina si impadroniva di me mescolandosi all’aroma amarognolo delle sigarette che fumavo. Inevitabilmente associai quella miscela maleodorante all’odore dell’estate.
Era Agosto, avevo 11 anni ed era la terza estate che trascorrevo al distributore di benzina. Un uomo, che tempo prima avevo visto, più volte, passare davanti al distributore, rallentare per poi continuare, quel giorno si fermò, fece il pieno e fu particolarmente gentile con me. Mi disse, infatti, che ero proprio un bel bambino, molto, molto bravo a servire i clienti, mi diede una mancia particolarmente abbondante e poi mi chiese se potevo accompagnarlo fino al bagno perché era un po’ stanco e gli girava la testa. Naturalmente l’accontentai, ma, appena fummo davanti alla toilette, mi tirò, con un atto veloce e furtivo, dentro con lui e chiuse la porta. Mi disse di non aver paura, che lui era un uomo buono che voleva bene ai bambini e intanto, con una mano mi stringeva fortemente la spalla impedendomi di muovermi e con l’altra mano, mi accarezzava le spalle, la schiena il sedere mentre sentivo il suo membro duro pigiare contro il mio corpo. Poi mi passò la mano sul seno ancora acerbo. Ansimando, disse che stavo solo facendogli un altro servizio, un servizio particolare che meritava di essere pagato molto bene. Avrei solo dovuto fare quanto lui mi avrebbe chiesto. Poi la sua mano giunse sul mio ventre e lentamente scivolò all’interno delle mutandine. A quel punto ebbe un sussulto e togliendo le mani dal mio corpo rimase indubbiamente inerme per la sorpresa di trovarsi davanti ad una femminuccia invece che ad un maschietto. Io che ero rimasta per tutto quel tempo immobile per la paura, tremando come una foglia e con il cuore che mi batteva all’impazzata riuscii finalmente a reagire. Approfittai del fatto che avesse mollato la presa sulla mia spalla per girarmi di scatto e tirargli, come mi aveva detto di fare mio padre “in caso di pericolo”, un calcio sui testicoli con tutte le forze rimastemi. Poi scappai fuori dalla toilette correndo verso il bar, ma non chiesi aiuto a nessuno. L’uomo non perse tempo, zoppicando, con una mano sul basso ventre, lo vidi attraversare l’area di servizio, chinarsi velocemente sul marciapiede che circondava la pompa di benzina, quindi raggiungere la macchina e ripartire in un battibaleno.
Quando, poco dopo, tornai al distributore trovai 1.000 lire tenute ferme da un sasso. Non capii, però, perché l’uomo mi avesse lasciato quei soldi. Li raccolsi ed assurdamente, mi sentii in colpa per averlo deluso. Mi sentivo sporca, bagnata sul retro dei pantaloncini. Andai alla toilette temendomi di essermi fatta la pipì addosso. Si, c’era una macchia sul retro dei miei pantaloncini, ma non aveva né la consistenza e né il colore della pipì. Quando la lavai mi accorsi che era viscida, appiccicosa e con uno schifoso odore dolciastro. Da quel momento per me l’estate assunse quell’odore, un odore che io stessa, purtroppo, finii per perpetuare.
In collegio, alla sera, avevo sentito Violetta, una mia compagna più grande, confidarsi con l’amica del letto accanto sussurrandole che talvolta, per mettere insieme i soldi necessari per comprarsi un paio di scarpe nuove o un vestito alla moda si era appartata nella stalla con qualche turista di passaggio, mentre non l’aveva mai fatto con la gente del luogo per evitare che venisse considerata come una ragazza di facili costumi. Capii solo qualcosa di quanto avveniva fra Violetta e lo sconosciuto, ma evidentemente, mi bastò per gestire la violenza subita in cambio di ricche mance. Con la scusa del sole abbagliante, chiesi a mia madre un vecchio lenzuolo da mettere a mò di tenda davanti all’unica finestra della casupola situata nell’area di servizio. In tal modo nessuno avrebbe potuto vedere all’interno del piccolo prefabbricato che fungeva da ufficio. Quindi se colui che si fermava a fare benzina era un uomo solo, che si mostrava gentile e complimentoso, lo guardavo con aria complice e gli chiedevo se aveva voglia di un “servizio particolare, un servizio più costoso degli altri”. Chi non capiva, si limitava trattarmi come un birbantello che cercava di ottenere qualche lira in più di mancia. Altri invece, dopo aver portato la macchina all’interno di un campo incolto con l’erba alta, ritornavano al distributore di benzina per seguirmi nella casupola dove, purché pagassero in anticipo, potevano ricevere i miei servigi. Dopo il tentativo di un anziano signore di penetrarmi, ma che fortunatamente si fermò davanti alle mie improvvise lacrime da bambina, ero solita, prima di entrare nella casupola con il cliente, stabilire limiti e regole dei nostri rapporti. Però se il cliente lo chiedeva ed era disposto a pagare una cifra extra, potevo concedergli un servizio extra.
Durante i due mesi che seguirono, portai a casa così tanti soldi che non solo mia madre poté pagare subito la retta del collegio che frequentavo e, persino, fare riparare il tetto della nostra casa. Acquistò anche una scatola di matite per me “visto che me le ero meritate”. Mia madre non mi chiese mai da che cosa dipendesse l’improvviso aumento di guadagni proveniente dalla pompa di benzina. Quando mio padre tornò a casa, dopo tre mesi passati per lo più lontano da noi, mia madre, evidentemente, trovò qualche buona scusa per quell’improvviso miglioramento economico, perché anche lui non mi chiese nulla. Quando mancavano, ormai pochi giorni all’inizio della scuola e quindi al mio ritorno in collegio, mia madre con l’espressione mite e un po’ timorosa mi propose di tornare a casa anche per le vacanze natalizie e quelle pasquali per dare una mano alla famiglia visto che ero così brava a gestire il distributore di benzina. Risposi con le parole di una donna “Perché non ti occupi tu, mamma, del distributore? Sono sicura che saresti molto più brava di me”. Mia madre non insistette. Quello stesso giorno a cena, papà mi domandò se quell’estate fosse stata molto faticosa per me. Con noncuranza risposi “Non molto”.
Se mi avesse chiesto che odore e che sapore avesse avuto forse non avrei esitato ad urlare quello dei soldi sporchi passati attraverso mani lerce, quello di uomini sudati eccitati di fronte a un corpo informe che fremono di piacere nel sporcarmi il corpo e l’anima e…., più di tutto, quello di una bambina che sentiva di valere così poco da lasciare che tutto questo avvenisse per poche migliaia di lire.
Le mie estati al distributore di benzina, ebbero fine improvvisamente due giorni prima che tornassi al collegio. Ricorso solo la signora Ada, come sempre al balcone, una macchina grigia che entrò nella piazzola del distributore e due operatori del servizio sociale che mi portarono via a forza. Non rividi più i miei genitori e crebbi in un orfanotrofio. Mi fecero studiare perché ero molto brava e riuscivo sempre ad aggiudicarmi la borsa di studio per continuare la scuola. Alla fine, ormai ospite dell’orfanotrofio come insegnate ed addetta a seconda delle emergenze, a molti altri lavori, mi laureai pure.
Poi me ne andai, cambia città e cercai lavoro in una fabbrica

Tre mesi dopo la mia partecipazione al concorso mi giunse una lettera. La busta in alto portava l’intestazione CONCORSO LETTERARIO “UN NUOVO AUTORE PER LA NOSTRA CITTA’”.
Non aprii mai quella busta. Per due giorni la tenni sul comodino senza mai avere neanche il coraggio di prenderla in mano. AL terzo giorno, decisi di mettere fine a quel piccolo tormento, presi la busta e con il suo contenuto la strappai in mille pezzi. Così non seppi mai come mi ero classificata al concorso. Ma sapevo che, almeno per il momento, la mia vita, per quanto squallida potesse sembrare, era sotto il mio controllo, protetta non dalla sofferenza in sé ma, sicuramente, dalla sofferenza incomprensibile. Ed è molto per chi nel passato non ha avuto la protezione di chi avrebbe dovuto esercitare questa funzione.
Per adesso, non desidero altro. Il futuro è una pagina bianca.

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