15/10/06

Lavandaie

di Giordano Antonio - Palermo, Terzo Classificato

Quadretto domestico ambientato in una Palermo post-bellica in cui si cerca in vari modi di tornare a vivere.
Per aver affrontato con ironia il racconto di un periodo storico difficile, dove per qualcuno farisi u miricano poteva essere una vantaggiosa soluzione.

Dopo la cosiddetta Liberazione e cioè quando finirono i bombardamenti e, invece dei tedeschi, c’erano gli americani, tornammo tutti a Palermo nelle nostre case e si ripresero le abitudini di una volta.
Le lavabiancheria non erano ancora state inventate, almeno credo, e, ogni due settimane, c’era il cosiddetto rito della “lavata”. Si trattava di questo. Tranne le cose minute che venivano lavate a mano dalla nonna o dalla mamma, c’era quello che veniva definito “u grosso” e cioè tutta la biancheria per lavare la quale occorrevano giornate e donne particolarmente nerborute. Del resto pare che queste donne, le “lavannare” fossero persone di ceto molto basso e che facessero cose molto volgari tant’è che mia madre e mia nonna, quando volevano offendere qualcuna non molto educata, dicevano con disprezzo “E’ una lavannara”.
Ma l nostra era una “lavannara” speciale. Due giorni prima di effettuare quella operazione, chiamata “lavata”, veniva ad effettuare quella di “mettiri i rubbi a muoddo””. Sio infilavano lenzuola e altra biancheria pesante in una grande “pila” piena d’acqua e vi si spargeva una specie di detersivo di allora, una sorta di sapone, forse. La biancheria restava a macerare e, dopo due giorni, veniva donna Cuncietta che, a forza di polsi, torceva la roba, la “stricava” e la passava con il sapone molle su un aggeggio di legno scanalato, chiamato “striicaturi”, la “arricintava” più volte e poi la stendeva.
Donna Cuncietta mi pareva una persona per bene. Parlava in dialetto ma era rispettosa, lavoratrice e “aveva tanto verso” anche con noi bambini. Di solito la “lavata” si faceva di Sabato, ma quel giorno la nonna e la mamma aspettarono inutilmente. Donna Cuncietta non si fece vedere né quel giorno né quello successivo e, per evitare che la roba marcisse, si dovette pagare una certa donna Carmela che era la “lavandaia” della signora del secondo piano.
Telefono non ne avevamo e non si sapeva come raggiungere la donna per sapere cosa fosse accaduto. Mia nonna alzò l’ingegno e, pagandole la carrozza, disse a donna Carmela di andare fino a casa della nostra “lavandaia” per vedere cosa fosse successo. Donna Carmela tornò di pomeriggio trafelata e, con un cenno della mano, fece un cenno alla mamma e alla nonna di venire di alto perché doveva riferire una cosa segretissima. Naturalmente, curioso com’ero, mi avvicinai furtivamente per sentire cosa dicessero. Prima che potessero scoprirmi e mandarmi via a ceffoni, potei sentire solo: “Signora, a figghia di donna Cuncietta pigghiò u terno” e, abbassando ancora la voce, sillabò “Si ficiru u miricanu”.
Non riuscivo a darmi pace. Che cosa poteva significare quella frase? Perché gli americani potevano impedire alle donne perbene di fare la “lavata”? Che misteri ci potevano essere? Qui urgeva l’intervento di Inzerillo, un mio compagno edi scuola che, essendo ripetente, era piuttosto navigato e conosceva uomini e cose.
L’indomani, all’uscita della scuola, lo chiamai. Non lo avevo fatto prima perché il maestro, durante la lezione non voleva che parlassimo, altrimenti giù bacchettate. Inzerillo mi ascoltò con molta attenzione, poi mi diede una pacca sulle spalle e si mise a ridere sgangheratamente.
“V’a putiti scurdari a donna Cuncietta”. Si avvicinò e mi disse in gran segreto: “SO figghiaa’si fici zita cu qualche surdatu miricanu e uora su tutti a puostu”. Dopo ulteriori richieste di spiegazioni riuscii a comprendere che veramente donna Cuncietta non aveva più bisogno di lavorare. La figlia aveva accolto in casa un soldato americano il quale, trattando quella come la sua famiglia, non faceva mancare niente a nessuno, dava anche il superfluo e tutti vivevano nel benessere.
Naturalmente si coricava con la figlia di donna Cuncietta. Forse perché non c’era spazio, pensai io.
E un giorno in cui mia madre si lamentava perchè mancava tutto, perché non ci si poteva vestire, perché il cibo non bastava, perché si stava male, per placare la sua disperazione le dissi con naturalezza: “Mamma non fare così! , Perché non ci facciamo il miricanu pure noi?” Mi presi un ceffone così potente che lo ricordo ancora.

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