16/11/99

San Francesco

di Grazia Mangano, Terza Classificata

L’autrice con versi semplici e liberi descrive l’apostolato di Francesco che annuncia il Vangelo dell’amore e del perdono privilegiando il Cristo che incontra e ama nei poveri

Fratello del mondo,
ogni giorno al sole nascente
t’incamminavi
per valli e per monti,
per predicare
il Santo Vangelo,
sino al tramonto
dell’ora svanente…
Unito alla gente
cantavi le lodi,
a Gesù Cristo
Nostro Signore…
Davi tutto per tutti
col cuore,
la fede e il sorriso
la quiete e l’amore
Nel cielo
strappavi le stelle,
per donarle
ai fratelli più poveri…

poverello d’Assisi

di Pippo Sebastiano Fichera, Secondo Classificato

L’autore del componimento illustra la particolare virtù che Dio ha donato al poverello d’Assisi di essere il cantore delle creature riconciliate che gioiscono nel giubilo del suo spirito.

Ogni giorno amiamo la vita
ogni ora preghiamo il Signore
ogni sofferenza a volte è sollievo.
Frate Francesco, santo dei santi
amore infinito d’immense gioie,
ama la natura che Dio ha creato
ama i fratelli nella tristezza
e nella gioia della riconciliazione.
Parlava agli animali, suoi fratelli
predicava agli uccelli creature divine
esercitava l’amore ogni giorno della vita,
ma la gioia della riconciliazione
lo gioiva di una grande ed immensa verità.
L’amore per i suoi fratelli, esercitava in lui
lo stesso amore che il Signore
ha dato a tutti fin dalla nascita,
fin dal momento che una creatura
apre gli occhi e vede tutto il creato.
Francesco, il poverello d’Assisi
visse per amare il prossimo suo,
visse per dare al mondo l’esempio della vita,
la carità e tutto il bene del suo cuore,
visse per essere amato onorato e glorificato
nello spirito nell’anima della sua riconciliazione
con tutti e con noi stessi.

Francesco gioia della riconciliazione

di Olga Scuderi Pera, Primo Classificato

L’autrice del testo ha cercato in versi di cogliere in sintesi la vita del Santo e in un coinvolgimento personale si sente erede dei suoi insegnamenti e ringrazia il creatore amando le creature.

La tua aureola splende di:
perdono amore castità e umiltà
questo tesoro ai lasciato
ai tuoi fratelli in eredità.
Oh! Santo Francesco quanto hai “perdonato”
e nella gioia “riconciliato”
hai amato le sante dolorose “stimmate”
che “Dio” ti ha donato.
Sei stato esempio di vita “divina”
rispecchiandomi in te
in ogni povero che mi tende la mano
nel suo scarno volto vedo “il volto di Gesù”.
Il “Cantico di Frate Sole”
(parole sante le hai scritte tu)
hanno ispirato in me un piccolo cantico
Santo Francesco lo dedico a te.
Ti amo cielo “perché “ mi hai dato la luce”
ti amo silenzio “perché mi fai pregare”
ringrazio te “Santo Francesco Fratello mio”
per questa splendida “eredità”
che è toccata anche a me.
Pace e Bene

Lettera aperta a frate Francesco

di Luigina Grandelli Canova Mantova, Terza Classificata

L’autrice di questa “ lettera aperta ” a frate Francesco esternando con accorato sentimento ciò che porta nel suo cuore, ci esorta alla pace e alla riconciliazione indicando l’umile alto e glorioso frate di Assisi come modello e maestro dell’amore fraterno. Ispiratasi alla “ preghiera semplice “ di Francesco ci consegna il suo ideale ribadendoci l’evangelico comando di Cristo: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”. Osservarlo è Fonte di gioia e di riconciliazione. L’amore dà senso e sapore alla nostra esistenza.

Caro Frate Francesco,
Questa sera sento il bisogno di scriverTi. Ho davanti a me la Tua “Preghiera Semplice” e i miei occhi si posano sui versi “Dove è odio, fa ch’io porti l’Amore” e poi ancora “Dove è discordia ch’io porti l’Unione”.
Frate Francesco, ci hai insegnato che l’amore annulla l’odio, che l’amore vince la discordia e crea l’unione e che l’unione è il fiore dell’amore. Perché ci sono ancora uomini che odiano e calpestano i propri simili per orgoglio e supremazia? Perché ci sono tante discordie? Discordie fra figli e genitori, fra fratelli, fra coniugi, fra popoli.
Tu volevi portare tutti sulla via dell’amore, del perdono, della carità ma soprattutto volevi la riconciliazione tra gli uomini e tra gli uomini e il Padre.
Non Ti abbiamo seguito, siamo stati superficiali. Ci siamo illusi di conquistare l’impossibile, ci credevamo forti, potenti e no ci siamo accorti che abbiamo soffocato il dono più prezioso: l’Amore. Siamo a quota zero, ma vogliamo ripartire. Vogliamo conoscere la gioia della riconciliazione, bere la tua acqua, scaldarci al tuo sole, camminare sul Tuo sentiero, costruire una terra vivibile e far rifiorire il giardino dell’amore.
Siamo agnelli smarriti, abbiamo bisogno del Tuo aiuto, abbiamo bisogno di sentire la freschezza della Tua parola alitare nei nostri pensieri, la forza del Tuo “Credere” plasmare le nostre azioni, la Tua umiltà camminare al nostro fianco. Sono certa che inizieremo un nuovo cammino: cammineremo con sicurezza verso la casa del Padre e gusteremo già su questa terra la gioia di essere figli di Dio.
E nel silenzio di questa stanza un raggio di luna attraverso la persiana socchiusa illumina la Tua “Preghiera Semplice” e m’invita a meditare…
Grazie Frate Francesco.
Poveri noi! Se distruggiamo l’amore per innalzare mura di dolore.

La Riconciliazione di Frate Elia

di Remo Stanziani Bologna, Secondo Classificato

L’autore di questo racconto storico si è ispirato agli ultimi momenti della vita del terzo generale dell’Ordine: frate Elia. Architetto colto e geniale guida intellettuale e successore di Frate Francesco, estromesso dall’Ordine, causa di lotte intestine tra i fratelli della prima ora, scomunicato dal Papa.
La mancata benedizione e la profezia del Santo di Assisi puntualmente si erano avverate nella vita tormentata di quest’uomo: “ la tua ragione ti perderà. Io prego affinché tu non sia dannato, quando abbandonerai l’Ordine “. Un messo papale negli ultimi istanti gli legge presso un letto di dolore, la riconciliazione e la reintegrazione nella Chiesa, con la partecipazione ai Sacramenti. Riconoscere il proprio peccato e i propri errori è l’arma vincente e la manna nascosta per ottenere il perdono di dio e dei fratelli.

Il suo sguardo annebbiato non gli permise in un primo momento di distinguere i lineamenti della figura ma quel tono di voce aveva desiderato ascoltarlo fin dal giorno della morte di lui: “Frate Elia, Frate Elia” lo incita l’ombra scuotendolo per il ricco abito che forse aveva addosso. Ma di questo non poteva essere sicuro,. L’anima sua stava abbandonando la dimora terrena in mezzo a indicibili sofferenze, niente a paragone di quelle da cui Frate Francesco si era impegnato a sottrarlo con le sue intercessioni. Eppure non volle credere a quello che il santo Frate gli aveva detto tanti anni prima. Elia credeva ciecamente al proprio libero arbitrio, alla forza della propria ragione; non poteva immaginare che la forza del nemico fosse così subdola da ingannarlo con le stesse armi che egli credeva di poter adoperare per difendersi.
L’aveva detto Francesco anni prima: “La tua ragione ti perderà. Io prego affinché tu non sia dannato, quando abbandonerai l’ordine”. Purtroppo era vero; il lume della sua ragione l’aveva reso cieco; l’eccessivo orgoglio per le proprie doti intellettuali l’aveva tradito. E tutto quello che Francesco gli aveva predetto si era puntualmente avverato. Quando in punto di morte Francesco volle benedire il suo successore ed ebbe la testa di lui, di Elia, sotto la sua mano disse:”Questi non è il mio successore, portatemi Bernardo”; fu detto che Francesco avesse perso in punto di morte la sua lucidità; fu detto che non riconobbe il capo del proprio Vicario, ma non fu così. Solo orasi rendeva conto del motivo per cui Francesco l’aveva fatto; non perché l’odiava, ma perché l’amava: voleva proteggerlo da se stesso, dai suoi grandi ideali, da una sete di giustizia e una vitalità a stento tenute a freno. Quando fu il suo turno di prendere sulle spallala croce di Francesco e guidare l’ordine credette che le profezie del Santo non potessero più verificarsi. Era mai possibile che un Ministro generale apostatasse l’ordine che aveva guidato? Sembrava impossibile eppure accadde.
Eppure lui aveva fatto del proprio meglio per guidare i suoi confratelli; ma proprio sotto di lui esplosero le contraddizioni interne, le dispute con gli Spirituali, i primi ammazzamenti guidati dal potere secolare. Fu chiamato addirittura assassino dai suoi confratelli, quando a Roma fu estromesso. Ma ancor più grande della perdita del comando dell’ordine fu turbato dal fatto che lui, Frate Francesco, glielo aveva predetto: aveva fatto del suo meglio e tutto andò a rotoli; perché Dio l’aveva trattato così? La sua rabbia esplose; ormai Satana l’aveva in pugno con la sua arma più efficace, la più vecchia: “Ti darò tutti questi regni se chinandomi mi adorerai” ed egli si era chinato di fronte al potere temporale, schiavo delle dispute del suo tempo. Abbandonò l’ordine, articolò parole di fuoco all’indirizzo del papa e divenne nient’altro che un cortigiano alla corte di Federico II. Era stanco, sfiduciato, non credeva più a lui, a Francesco povero illuso. Non credeva più in Dio.
E fu allora che iniziò ad ammalarsi. Fu allora che iniziò a capire.
“Frate Elia, state bene?” gli fece l’ombra. “Frate Francesco, siete voi?” “No frate Elia; vengo con la risposta del sommo pontefice”. All’improvviso ricordò. Le discussioni, le scomuniche.. riuscì ad intuirne il senso.
“Cosa ha detto il sommo pontefice?” “Siete perdonato, frate Elia, potete accostarvi ai sacramenti”.
Aveva ottenuto il perdono del Santo Padre per questioni che ora gli apparivano di una importanza minima, quasi una futile cosa che gli era valsa ben due scomuniche. Si rendeva conto ora, al definitivo tramontare della sua lunga vita che il motivo per cui aveva seguito Francesco tanti anni prima era racchiuso in quello che si apprestava a compiere ora, in un rito celebrato tante volte, e al quale ora si avvicinava come l’ultimo dei fedeli.
Il giovane recito l’antifona, poi la preghiera dei fedeli, poi tutto il resto, fino alla predica, che il sacerdote volle ispirare alla cena di Betania; fu una sparata retorica sul diritto della Chiesa a detenere il potere secolare e con esso onori e ricchezze, tale da far rivoltare le budella al meno spirituale dei Francescani, ma ormai a Frate Elia tutto questo non importava più niente. Si era confessato, era al tramonto della sua esistenza, la sua dimora terrena si era andata sgretolando ogni giorno di più, a partire dal momento della morte di Francesco. Il Santo tanti anni prima gli aveva predetto la sua apostasia, gli aveva predetto i rischi per la sua anima, gli aveva garantito la sua intercessione. E questa era l’unica cosa che gli importava.
Sapeva di avere poco da vivere, sapeva di avere sbagliato tanto, e chiedeva contrito perdono a Dio per i propri errori. Anche questo Frate Francesco gli aveva predetto, il suo pentimento, il suo perdono.
Ed ora, all’istante di accostarsi forse per l’ultima volta al Santissimo Sacramento, tuta la propria travagliata esistenza acquistava un senso nuovo, come se tutto fosse stato preordinato in vista di questo momento.
Il momento del ritorno al Padre.
E’ storicamente accertato. Frate Elia, terzo ministro generale dell’Ordine Francescano ed uno dei primi discepoli di Francesco morì riconciliato, il martedì di Pasqua 22 Aprile 1253.

La Luna Bavarese

di Bruno Longanes San Giuliano Milanese (Modena), Primo Classificato

Nel racconto, l’autore, riproponendo un episodio della II guerra mondiale, e considerando lo stato di miseria e di fame in cui si trova, si imbatte, durante una sortita per andare a cercare cibo e medicine, in una notte fredda imbiancata dalla neve e illuminata dalla luna, con un giovane soldato nemico ferito e lasciato a morire dai compagni. Il dialogo che intrattiene e lo stato d’animo con cui è vissuto dall’autore protagonista dimostrano nella drammatica situazione, la grande capacità di solidarietà e di pietà.
Il nemico è amico e il perdono e l’amore non conoscono rivali.

Aveva nevicato fino al giorno prima.
Era cominciato presto l’inverno
Molta neve era caduta in Romagna fin da prima di Natale.
Faceva molto freddo quella sera del 1 febbraio 1945.
Avevo un presentimento: non volevo uscire nella notte, c’era qualcosa in me che non mi esortava a fare la normale sortita.
Altre volte mi era capitato di provare questa sensazione ma, come al solito, decidevo rapidamente per il sì.
Anche quella sera quindi mi preparavo per uscire a notte inoltrata.
Era necessario.
Per uno strano gioco del destino, la guerra iniziata in paesi lontani fin dal 1939 si era man mano avvicinata all’Italia, poi da tre mesi, per motivi militari e strategici non bene comprensibili, si era fermata addirittura a Bagnacavallo.
Era diventato un logorante conflitto di Posizione, che aveva imposto ai due eserciti belligeranti una comune “terra di nessuno” localizzata fra la stazione ferroviaria di Bagnacavallo e il fiume Senio.
Un paio di chilometri dove i contendenti si battevano per una supremazia del tutto contingente.
Questo stato di cose aveva portato la popolazione civile del luogo allo stremo.
Vivevamo come le bestie, pigiati in rifugi di fortuna improvvisati privi dell’essenziale come luce, acqua, giacigli, servizi igienici.
Nulla!
I viveri e i medicinali erano scarsissimi e bisognava per forza di cose arrangiarsi.
Ecco il motivo delle sortite notturne: trovare viveri fra le macerie e fra i combattenti deceduti, perchè ogni militare aveva in dotazione un pacco medicinale di pronto intervento e una razione di viveri di scorta.
Due ambiti bottini da depredare ad essere umani che non avevano più queste necessità!
Era quindi opportuno che uscissi anche quella sera, tanto più che non mi toccava il turno di riposo.
Nella cantina adibita a ricovero c’erano delle lunghe panche.
A turno per dormire ci si sdraiava sotto, su una lettiera di strame e paglia.
Chi non riposava sedeva sulle panche.
Le gambe di questi facevano da sponda al giaciglio di chi dormiva!
Non nevicava più, anzi era una bellissima nottata.
Era plenilunio e le nuvole alternavano il chiarore latteo della luna a improvvise oscurità.
Una sera adatta per andare a “caccia” in quanto, con il plenilunio, le azioni di pattuglia dei due contendenti erano ridotte al minimo.
Faceva freddo questo sì, ma la temperatura rigida era il nemico meno pericoloso.
Poteva addirittura considerarsi un alleato, poiché il termometro costantemente sotto lo zero rendeva più igienico il… lavoro cui mi accingevo.
La Luna e il riverbero della neve davano un aspetto spettrale a questa tormentata terra di nessuno dove tutto era stato distrutto.
Sembrava una landa completamente abbandonata, un deserto candido.
Eppure migliaia di uomini erano concentrati in trincee, buche, camminamenti e anfratti con occhi vigili, pronti a scontrarsi in furenti combattimenti. In apparenza era una nottata calma, una di quelle notti in cui i soli tiri di intercettamento e di sbarramento disturbavano le pattuglie o il sonno dei contendenti.
Uscii tranquillo.
Ormai era diventato una specie di esaltante gioco, una apparente caccia di disinvolto impegno sportivo.
Era un gioco pericoloso?
Certo!
Ma lo spirito di adattamento dell’uomo era impensabile!
Tanti mesi di fronte in primissima linea avevano assopito ogni paura e ogni remora morale.
E poi l’incoscienza, la sconsideratezza e l’irresponsabilità dell’età, avevano avuto il sopravvento sulla residua ragionevolezza.
Mi diressi carponi sulla direttrice della linea ferroviaria Bagnacavallo – Lugo.
Di questa linea restava solo il ricordo del tracciato: binari e traversine erano stati tutti asportati dai civili e dai militari per rafforzare i luoghi di riparo a difesa.
Andavo molto circospetto in quella calma irreale.
Non c’era da fidarsi troppo!
In lontananza sentii una sparatoria.
Colpi di armi da fuoco leggere: mitragliatrici e armi in dotazione individuale.
Piccole scaramucce nelle vicinanze delle rive del Senio.
Erano passati non più di dieci minuti quando sentii tre botti secchi, inconfondibili per orecchie esperte: colpi di artiglieria in partenza.
Una frazione di secondo e il classico sibilo: erano in arrivo, vicinissimi i proiettili.
Mi misi in protezione.
Rannicchiato, premendo nel terreno come per penetrarvi, con il corpo e le mani al riparo dagli organi vitali, aspettai un attimo.
Tre lampi squarciarono la notte seguite da tre violentissime esplosioni.
Rimasi immobile per un paio di secondi in modo che il ventaglio di schegge e di materiale vario scaraventato dall’esplosione si assestasse.
Aspettai ancora un paio di minuti sul posto senza muovermi.
Silenzio assoluto.
Senza dubbio erano stati tiri di intercettazione e per un po’ ci sarebbe stata tranquillità.
Si poteva proseguire.
Avanzai guardandomi attorno.
C’era poco da cacciare!
Forse era una nottata infruttuosa, una sortita inutile.
Bisognava comunque tentare ancora, proseguire ulteriormente.
Le orecchie allenate, percepirono un leggero rumore.
Una nuvola nascondeva la luna, era abbastanza buio!
Il terreno circostante non presentava grossi ostacoli alla vista, ma non percepivo più il brusio e non vedevo nulla che giustificasse la mia apprensione.
Improvvisamente alle mie spalle sentii distintamente qualcosa che disturbava quella quiete.
Era un brontolio continuo ma non riuscivo a capire di che si trattasse.
Trattenni il respiro.
Restai immobile.
Meno male che c’era quella nuvola!
Ad un tratto mi apparve alla vista un cane magro, sfinito, che faticava a farsi strada in tutta quella neve.
Forse non mi vide, forse non mi fiutò.
Andava avanti barcollando.
La fame doveva avergli fato perdere anche il senso olfattivo e il senso di orientamento.
<< povera bestia>> pensavo e in quel momento non mi rendevo conto che eravamo tutti e due in quel posto per lo stesso motivo.
Ci ignorammo a vicenda.
La situazione paradossale suscitò in me un senso di ilarità e di esaltazione.
Perché poi?
Stati d’animo che è difficile valutare a distanza di tempo e in situazioni normali.
Pensando ancora a quel cane mi chiedevo, quasi a continuare il gioco: << Chi sarà più fortunato di noi due?>>.
Alcuni razzi traccianti mi richiamarono alla realtà.
Cosa significavano?
Avvertimenti a pattuglie?
Segnali di imminenti attacchi?
Non potevo farci niente!
Continuai ad avanzare senza una meta precisa.
Ad un tratto vidi alla mia destra una massa scura che contrastava con il candore della neve.
<>.
Mi avvicinai con prudenza perché di solito nelle buche prodotte dai colpi di artiglieria si attestavano le pattuglie per sorprendere gli avversari o per riposare.
Non mi sbagliai.
Era effettivamente un cratere determinato da una granata e ai suoi bordi qualcosa si muoveva sia pure impercettibilmente.
Mi sembrò di sentire un sommesso richiamo.
Restai incerto sul da farsi.
In simili situazioni subentra una ridda di contrastanti impulsi.
Con molta cautela mi portai un po’ più vicino.
In quel momento la luna risplendeva in cielo non adombrata da nubi e vidi chiaramente qualcosa che spiccava nella neve.
Era un specie di… no… no… era una forma umana!
Immobile, ma aveva l’apparenza di una persona accovacciata.
<> (come eravamo ridotti!).
Aveva una tuta mimetica bianca di foggia tedesca, caratteristica delle pattuglie in ricognizione.
Con grande commozione mi accorsi che non era morto.
SI vedeva la tuta sollevarsi aritmicamente.
Respirava!
Era prono.
Lo presi con una certa delicatezza e lo misi in posizione supina.
<> - dissi a me stesso.
Aveva un viso adolescente pallidissimo, terreo, esangue.
Respirava a fatica ma senza lamentarsi.
Mi guardava fisso, era perfettamente cosciente.
Lessi nei suoi occhi una espressione di paura, non di dolore.
Capii al volo.
Aveva visto che ero un civile!
I Tedeschi, specie nella linea del fronte, temevano molto i civili.
I loro capi li avevano catechizzati affinché fossero sempre vigili, che tutti i civili erano partigiani, ostili ai Tedeschi, “ribelli” li chiamavano o addirittura “Banditen”, banditi!
Ecco il motivo del terrore.
Lo tranquillizzai subito dicendogli << Ich bin ein Freund (sono un amico)>>.
Mi guardò sorpreso.
Sgranò gli occhi ma non riuscì a sorridere.
<> - ripetei.
Vidi subito che era gravissimo.
Aveva ancora l’elmetto e la tuta mimetica allacciata in cintura.
Dove era ferito?
Sulla parte superiore del corpo non c’era traccia di sangue.
Ma appena vidi le gambe che penzolavano sulla buca del cratere intuii la situazione.
Una grossa scheggia l’aveva colpito all’altezza del femore e del bacino.
Certamente aveva reciso un arteria.
Tutto attorno alla ferita c’era una grande macchia rossa, resa ancora più evidente dal candore della neve.
Aveva perso molto sangue.
Stava dissanguandosi, anzi era ormai alla fine.
Non sapevo cosa fare.
Gli tolsi l’elmetto.
Apparve una testa di capelli biondi arruffati.
Non sembrava il prototipo del soldato tedesco, con la rasatura dei capelli molto alta.
Forse al fronte certe impronte prussiane erano state messe al bando.
Aveva gli occhi azzurri, un viso magro, scarno, emaciato.
Lineamenti molto regolari.
Chissà perché vidi in lui una vaga rassomiglianza con me.
Gli slacciai il cinturone della tuta.
GOT MIT UNS (Dio è con noi –rea scritto su tutti i cinturoni dei militari dell’esercito tedesco-) stava scritto sull’attacco della cinghia.
<< Come hai bisogno di Dio in questo momento >> - pensai rapidamente.
Aveva una piccola cicatrice sulla fronte, una cicatrice recente ma era evidente che non si doveva trattare di un postumo riguardante un fatto di guerra.
Forse un incidente di gioco di poco prima, con ragazzi suoi coetanei.
E per questo, involontariamente, la mia prima domanda fu banale, sciocca, inopportuna in quel frangente.
>> Wie alt sind Sie? (Quanti anni hai) – chiesi.
Mi rispose con un filo di voce:
<>.
Mio Dio! La mia stessa età diciassette anni!
Come era tragico il destino in quel momento.
Immaginai le parti invertite.
<< Wie geht es Ihnem (Come stai)?>> - domandai mentre gli passavo una mano sotto il capo per sollevarlo un attimo.
Esitò, poi <> - rispose cercando di farmi capire che conosceva la sua gravità.
Cercai di persuaderlo che non era una cosa grave, anzi.
Gli chiesi il suo nome
Mi rispose <>.
Mi disse anche che era nato a Augsburg in Baviera.
Un attimo di silenzio poi quasi vergognoso disse un paio di volte:
<>.
Aveva sete.
Non avevo acqua con me.
Presi un po’ di neve e gli strofinai ripetutamente la bocca.
Mi ringraziò con un pallido sorriso.
La luna illuminava la scena.
Sembrava ancora più rilucente, più luminosa.
Notai che la fissava.
La guardai anch’io.
<> - mi disse e poi subito <> per farmi capire che sapeva qualche parola di italiano.
Forse non soffriva più.
Il dissanguamento cominciava a produrre i suoi effetti lenitivi mitiganti il dolore.
Era comunque la fine.
Respirava sempre più debolmente.
Vedevo che voleva parlare ancora ma non riusciva più ad esprimersi bene.
Riuscii a capire certe parole: <> <> <> - <>.
Intuii che voleva connettere un discorso completo, ma ormai non era più in grado.
Fissava sempre la luna!
<> - ripeteva con un filo di voce.
Sempre per intuizione, cercai di assemblare le parole.
La luna, Isolde: chi poteva essere se non la sua ragazzina?
Augsburg, la sua città in Baviera.
Cosa gli passava per la mente in quei terribili momenti?
La spiegazione che diedi era la più ovvia.
Avrà pensato, guardando la luna, a quante volte insieme ad Isolde l’avevano ammirata forse abbracciati teneramente, nella loro città di Augsburg in Baviera.
Era la stessa luna che in quel momento illuminava la casa dove Isolde dormiva ignara.
Forse pensava a lui o, nel sonno, lo sognava!
La luna che nello stesso momento illuminava la sua Baviera!
Una luna italiana, ma anche bavarese!
Non so che cosa succedesse.
Ebbi un attimo di smarrimento forse di paura, di sgomento, di terrore o di commozione.
Tanti anni sono passati da allora e il ricordò è sfumato.
Non volevo vederlo morire, questo era certo!
Feci un gesto risoluto quasi intuitivo quasi per rientrare in una cruda realtà, in quella cruda realtà!
Pensai di slacciare i bottoni della giacca per toglierli la piastrina di riconoscimento che ogni militare porta sempre con sé.
Avrei voluto conoscere il suo nome completo, le sue generalità il suo indirizzo e forse a guerra finita avrei potuto comunicare con la sua famiglia.
I bottoni erano già slacciati: la piastrina non c’era più.
I suoi camerati di pattuglia, vista l’impossibilità di trasportare un ferito così grave, l’avevano già tolta.
Era già morto per loro!
Un pugno nello stomaco non mi avrebbe indispettito di più.
Cosa potevo fare?
Ancora me lo chiedo.
Forse nulla potevo fare.
So cosa feci.
Lo chiamai: <>.
Mi fissò.
Non sapevo cosa dire, cosa potevo dire!
Gli raccontai una pietosa bugia.
Disse che andavo incontro ai suoi camerati e li avrei riportati da lui con un medico.
Gli dissi ancora che non era grave, che avrebbe rivisto Isolde, sicuro l’avrebbe rivista!
Sarebbe tornato nella sua Baviera!
Quante bugie dissi!
Lui ascoltava e sembrava capisse, anzi capiva, perché prima di lasciarlo mi sussurrò:
<>
Ero sbigottito, turbato, smarrito, sconvolto.
Dove andai?
Quanto mi allontani da lui ?
Non ne ho l’esatta percezione.
Ricordo che mi fermai in un ‘alta buca provocata dalla scoppio di una granata.
Ero al sicuro.
Una ridda di pensieri mi passò per la testa.
Non so più quali, ma terribili per un ragazzo di diciassette anni!
Ad un tratto ricordai il motivo della mia presenza in quel luogo.
Ero a caccia di medicinali e di cibo.
Raimund aveva con sé medicinali e cibo ma perdio! Come erano lontane quelle necessità ormai!
Dovevo rientrare
Ma non mi decidevo.
Guardavo la luna…
E Raimund? La vedeva ancora oppure…
Ero inchiodato in quella buca.
Non riuscivo ad uscire!
Cosa mi fece decidere?
Temo che il ricordo sia velato da fantasia o da immaginazione.
Ma giurerei che improvvisamente una grossa nube oscurò la luna.
Un attimo solo, poi questa riprese a brillare più di prima.
Era quello che aspettavo?
Non so, forse sì!
Come un automa rifeci il percorso di ritorno.
Vidi in distanza il luogo dove avevo lasciato Raimund e ne vidi il corpo!
Mi avvicinai.
Era stranamente tranquillo.
Sapevo che lo avrei trovato così!
Gli occhi azzurri, rivolti al cielo e immobili per sempre, guardavano la luna con un’espressione di serenità.
Per pietà avrei dovuto chiuderli.
Per tenerezza li lasciai aperti.
Li lasciai guardare la luna la “sua” luna bavarese!

Francesco odierno riconciliatore

di Lia Megna Trapani, Terza Classificata

L’autrice del testo coinvolta dalla musica e dall’armonia del cantico di frate Sole, pacifica se stessa. E con tre invocazioni al santo d’Assisi richiama alla nostra memoria l’innocenza del bambino, la povertà e la luce di Greccio, l’araldo di pace, e l’uomo sulla croce che riconcilia il mondo.

Nel Cantico di tutte le creature
mi avvolgesti, o Francesco,
ed elevai con te inni al Signore
insieme a madre terra e frate sole.
Lentamente si sciolsero le cinghie
dell’intimo scontento
ricomponendo ogni lacerazione
dell’assurdo mio tempo
su prati di rugiada e valli in fiore.
O tu, d’Assisi grande innovatore
che divenisti mite poverello
per ritrovarti ricco nell’AMORE,
tu riproponi a noi
per il DUEMILA e poi
trasparenti purezze
e nostalgia d’antiche ciaramelle
in un presepe irradiator di luce.
Tu, soave cantore rendi attuale
la novella di pace del VANGELO
tra sorella letizia e fra dolore
con umile semplicità di cuore.
O tu, di Cristo innamorato ardente,
infiamma pure noi del tuo fervore
nel nostro mondo povero d’AMORE,
sii tu strumento riconciliatore

Francesco gioia della riconciliazione

di Giuseppe D’Urso Catania, Secondo Classificato

L’autore della poesia partendo dalla vocazione di Francesco che realizza il sogno di una umanità riconciliata nella sua vita, spinge i popoli della terra a non lasciarsi travolgere dal senso dell’oblio

Lasciate le terrene
Ricchezze del padre
nudo alla povertà
seguito da pochi
schermito da molti
volto a scoprire i volti
di chi ha bisogno.
Volto al sogno
d’una riconciliazione
tra i delusi della civiltà
tra popoli ed etnie
scoprendo le vie
della vera fraternità
fiducioso in Dio
illuminando il cammino
delle genti fino
a madre Teresa e Padre Pio,
unito a Lui dalle Stimmate
colte dal Golgota
perché
del suo insegnamento
non travolga il vento
tutta l’umanità.

Lebbra

di Nurchis Mario Sassari, Primo Classificato

L’autore del componimento nella prima parte ha dipinto con estrema efficacia e sintesi un momento cruciale della vita del santo che restituisce ad un lebbroso la gioia della guarigione del corpo nella carità di un abbraccio. Nella seconda parte calandosi nel personaggio evangelico del figliol prodigo sperimenta che la vera lebbra è quella del cuore e dei suoi sentimenti e che solo le braccia aperte dell’amore del Padre Celeste che attendono, guariscono e fanno vibrare di gioia indicibile.

Ho appeso al collo un campanaccio
per avvisare i sani della mia lebbra
ma un giovane mi guarda titubante
poi mi abbraccia e mi bacia
e io tremo dalla gioia
e ancor più felice mi accosto
alla fresca acqua limpida
che mi lava e mi cura.
Io sono perfettamente sano
onorato e rispettato da tutti
ma il mio cuore è malato di morte:
piaghe purulente di edonismo
pustole arrossate di superbia
ulcere sanguigne d’invida
croste infette di indifferenza
e fibre indurite d’egoismo.
E d’un tratto il party è un porcile
e quel che mangio sono carrube.
Lascio il drink e un falso sorriso
e so chiaramente dove andare
e il cuore già batte di gioia:
me la comunicano due braccia aperte
che mi attendono lassù
nella casa in cima alla collina