01/05/06

Tratto da "I venditori ambulanti"

A volte giocando penzolanti dal carramatto di Baldassarre, capitava di incrociare u ricuttaru, e allora volentieri saltavamo giù per avvicinarsi a lui. Il baffuto venditore per poter raggiungere il nostro paese con il latticino ancora caldo, aveva armato con un gran contenitore cubico in legno il portapacchi posteriore della mitica motocicletta rossa Motom. Container che ogni mattina colmava di cavagne grondandi ancora il tiepido siero giallastro del latte, sistemandole tutte accucciate, testa e coda, a solari, alla maniera di quando si salano le acciughe nel barilotto; trovando in un cantuccio anche lo spazio per alcune fiscelle di giunco colme fino all’orlo di quell’ottima ricotta di latte di pecora.
Mentre il ricottaro era intento a fare scivolare il molle e fumante ripieno delle cavagne nei piatti tenuti in mano dalle donne, noi bambini infilavamo l’indice negli astucci di canna, che di volta in volta svuotava e appendeva per il pendutolo di raffia all’uncino rugginoso attaccato fuori il cubo, per rastrellarvi i residui grumetti di ricotta rimasti attaccati e buoni da leccare.
Soltanto cento liberatorie lire mi affrancavano da quel gioco, permettendomi di comprarne una piena tutta per me che mi deliziavo a sorbire come fosse una bibita , mettendo in festa il mio palato che con indicibile piacere pasteggiava e assaporava il gusto del latte di pecora, insaporito da quella leggera punta di fumo provocato dalla legna consumata dal fuoco che la mattina presto alla mànnira aveva scaldato la quarara. Infine, dopo averla svuotata, appagato appendevo la lavagna all’uncino, ma non prima di averci guardato dentro ed essermi assicurato d’ averla nettata a dovere.
Quando al ricottaro non s’avvicinava più nessun cliente, egli dava l’ultimo richiamo, un colpo secco di pedale del motore e, togliendo il cavalletto, montava in sella, e ritornava a gravare con l’intero negozio sulle sommesse ruote della Motom.
Rivedo ancora oggi quell’uomo baffuto montare in arcione alla Motom e puntare con le gambe divaricate i piedi a terra, riassettarsi la coppola dalla visiera unta, e dare il mezzo giro alla manopola dell’acceleratore facendo scoppiettare il motore, che nonostante il peso di quel negozio e del suo negoziante, lasciandosi dietro una nuvola di fumo, riesce ugualmente a dare l’abbrivio a quel corpo unico, facendolo scivolare verso un’altra cantoniera, verso una nuova sosta dove bandire il prelibato latticino gridando <>
C’erano Salvatore, Torretta e Ferraguto, che pedalavano in sella alle loro chimere per metà prore di barca e per metà tricicli. Esse verniciate di bianco e bordate d’azzurro, sulle murate avevano dipinto in elegante corsivo la scritta “Gelati”, mentre nel cuore ghiacciato del loro fasciame trasportavano granite al gusto di limone, mandorla e cacao.
I gilatari, sin dalle prime ore del mattino si annunciavano con un caratteristico sibilo acuto e intermittente del fischietto, a cui seguiva il grido <<>. E il loro passaggio non poteva che essere l’arrivo del fresco companatico per la particolare colazione estiva dei paesani fatta, per l’appunto, di pane e granita.
Passava per le vie anche l’indimenticabile venditore da Citrata i Morica, dolce realizzato con zucchero e scorza di cedro. L’omone, con la coppola dall’aspetto piacevole, indossava sempre sopra una candida camicia il gilè nero. Spingendo a braccia il carrettino, squarciava il silenzio del primo pomeriggio con la sua possente voce tenorile, magistralmente usata per bandire la cedrata. Egli è stato l’unico venditore ambulante forestiero, ad avere riconoscenza della benevola fiducia dei suoi clienti del mio paese. Riconoscenza per oltre cinquant’anni d’interrotta attività, manifestata per sua volontà dal figlio sui manifesti listati a lutto che annunciarono alla città la sua dipartita. Mesta notizia che procurò a molti la sincera commozione, oltre il risentire l’eco del suo grido dal registro acuto ed esteso che diceva <<>>.
Rammento che, puntualmente tutte le sere sotto la gradinata del Cinema Kursaal, sostava un carrettino illuminato da una piccola lampara da pesca alimentata a gas, dove si vendevano lupini, semi di zucca salti, noccioline americane, ceci e fave abbrustoliti. Il luppinaro pesava la merce sulla bilancetta appesa ad una struttura di legno dotata di cassettino, dove apparivano ormai sbiaditi i motivi ornamentali presi dal carretto siciliano e un fiocco rosso scolorito, da cui penzolava il caratteristico amuleto a forma di corno, elemento indispensabile per tenere lontano le forze malefiche e pericolose sprigionate dai possibili occhi rassi e mmiriusi.
Per le strade capitava d’incontrare anche chiddu do ferru vecchiu, che per poche lire acquistava qualsiasi cosa fatta di metallo prediligendo però quelle di rame. Oppure u siggiaru, che girava con gli arnesi sistemati nel tascapane portato a bandoliera, e lavorava davanti le porte riparando le maglie di giunco dei sedili di qualche Thonet d’epoca o sostituendoli completamente con dei nuovi di compensato stampato, certamente più sbrigativo ed economico. E ancora u mmola forbici e cutedda, l’arrotino anche lui con la Motom rossa, con la grossa pietra mola fissata sul portapacchi posteriore e collegata per mezzo di una cinghia alla ruota motrice.

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