16/11/04

I Venditori Ambulanti

di Romano Salvatore, Primo Classificato

Parpignol. Parpignol ! Parpignol !...
Ecco Parpignol! Parpignol!
Col carretto tutto fior!
Ecco Parpignol!
(G. Puccini – la Bohème – atto secondo)

Un vecchio cappellaccio di paglia sfilacciato si lasciava trascinare nei suoi generosi buchi dalle lunghe orecchie penose di un asino così vecchio da sembrare che avesse cent’anni, ma così forte da riuscire a tirarsi dietro, passo passo come un condannato rassegnato, il vecchio carramatto carico di mercanzie che il suo anziano padrone giornalmente gli attaccava.
Quando, sotto il primo sole del mattino, Baldassarre passava per quel tratto di strada prospiciente il mare, la siluetta di quell’insieme in movimento governato dal sonnacchioso cocchiere era inconfondibile. La controluce, infatti, lo faceva apparire sullo sfondo del mare argentato di un solo colore scuro, come un ‘ombra cinese con due grandi occhi color verde smeraldo creati dalla trasparenza di due enormi damigiane lì sopra trasportate.
A quell’immagine si aggiungevano lo zoccolio lento del quadrupede, il rumore delle ruote giranti sull’asfalto gia caldo, il suono dei superstiti cincianeddi rimaste cucite alla logora bardatura e in ultimo l’inconfondivbile voce arrochita di Baldassarre, che gridava <<>>, la liscivia, la liquida soluzione biancante necessaria per candeggiare il bucato che le donne compravano al minuto.
Alla “sinfonia” dell’ombreggiato carramatto s’aggiungevano i latrati stizziti di Fumo Nero, un meticcio dal pelo color carbone che usava dormire al sole, straiato sulla pancia davanti la porta delle anziane signorine Nidduzza e Mariuzza.
Tonde depositarie le panciute damigiane smeraldine, contenenti la liscivia che lo stesso Baldassare preparava e vendeva per poche lire al litro, troneggiavano su quel carramatto nella loro maestà fianco a fianco. E dico troneggiavano, perche la canapa protettiva che le rivestiva, intrecciata a maglia a mò delle cotte d’arme degli antichi guerrieri medievali, e i grossi tappi di sughero dal taglio svasato, infilati nelle loro bocche, le trasformavano in una coppia d’ austeri regnanti in trono.
Ricordo quando da bambino con la bottiglia in mano m’avvicinavo a quella siluetta per comprare la liscivia alla mamma, e com’essa di colpo esplodeva nei suoi veri colori, nell’immagine allora per me ancora inconsueta ma oggi affine del Parpignol de La Bohème pucciniana, rivelandomi la moltitudine degli umili sudditi, fatta di piccole mercanzie prostrate ai piedi delle grosse e verdi maestà. Erano saponi di Marsiglia, scope di paglia, stracci, pacchetti di detersivo in polvere Miralanza con dentro le figurine dei punti che portavano stampato Calimero o l’allegre e irreali casalinghe dal sorriso stereotipato intende a stendere la candida biancheria. E ancora grigie matasse di paglietta metallica per lucidare le pentole, mollette per la biancheria, manici di scopa, frettazzi, spugne, pezzi di sapone artigianale preparato con la soda caustica amalgamato nell’olio di oliva vecchio, i coloratissimi secchi e bacinelle modellati nel moplèn che segnavano i primordi della civiltà della plastica e tanta altra roba per le pulizie domestiche.
Baldassarre nel suo girare quotidiano per le vie e i vicoli del paese era sempre inseguito da noi bambini, che giocavamo ad appenderci al suo carramatto. Gioco che invece non era possibile fare col carramatto di don Carmelo detto u Carbunaru. Anche questi si lasciava trainare da un vecchio asino dal pelame nero, ma gridando <>. E dato che vendeva carbone di legna, appendersi al suo veicolo per noi bambini era veramente rischioso poiché la polvere nera di quel mercimonio, che,ardendo nelle fornacelle degli acquirenti, avrebbe restituito la luce e il calore necessari per arrostire succulente pietanze, ma lì, in quel gioco, ti cambiava il colore della pelle e dei vestiti. Tranne che, una volta rientrati a casa, non si era disposti a farsi battere la fuliggine di dosso dalle mani delle nostre mamme, le quali non avevano niente in comune con le fiabesche casalinghe delle figurine Miralanza.
A volte giocando penzolanti dal carramatto di Baldassarre, capitava di incrociare u ricuttaru, e allora volentieri saltavamo giù per avvicinarsi a lui. Il baffuto venditore per poter raggiungere il nostro paese con il latticino ancora caldo, aveva armato con un gran contenitore cubico in legno il portapacchi posteriore della mitica motocicletta rossa Motom. Container che ogni mattina colmava di cavagne grondandi ancora il tiepido siero giallastro del latte, sistemandole tutte accucciate, testa e coda, a solari, alla maniera di quando si salano le acciughe nel barilotto; trovando in un cantuccio anche lo spazio per alcune fiscelle di giunco colme fino all’orlo di quell’ottima ricotta di latte di pecora.
Mentre il ricottaro era intento a fare scivolare il molle e fumante ripieno delle cavagne nei piatti tenuti in mano dalle donne, noi bambini infilavamo l’indice negli astucci di canna, che di volta in volta svuotava e appendeva per il pendutolo di raffia all’uncino rugginoso attaccato fuori il cubo, per rastrellarvi i residui grumetti di ricotta rimasti attaccati e buoni da leccare.
Soltanto cento liberatorie lire mi affrancavano da quel gioco, permettendomi di comprarne una piena tutta per me che mi deliziavo a sorbire come fosse una bibita , mettendo in festa il mio palato che con indicibile piacere pasteggiava e assaporava il gusto del latte di pecora, insaporito da quella leggera punta di fumo provocato dalla legna consumata dal fuoco che la mattina presto alla mànnira aveva scaldato la quarara. Infine, dopo averla svuotata, appagato appendevo la lavagna all’uncino, ma non prima di averci guardato dentro ed essermi assicurato d’ averla nettata a dovere.
Quando al ricottaro non s’avvicinava più nessun cliente, egli dava l’ultimo richiamo, un colpo secco di pedale del motore e, togliendo il cavalletto, montava in sella, e ritornava a gravare con l’intero negozio sulle sommesse ruote della Motom.
Rivedo ancora oggi quell’uomo baffuto montare in arcione alla Motom e puntare con le gambe divaricate i piedi a terra, riassettarsi la coppola dalla visiera unta, e dare il mezzo giro alla manopola dell’acceleratore facendo scoppiettare il motore, che nonostante il peso di quel negozio e del suo negoziante, lasciandosi dietro una nuvola di fumo, riesce ugualmente a dare l’abbrivio a quel corpo unico, facendolo scivolare verso un’altra cantoniera, verso una nuova sosta dove bandire il prelibato latticino gridando <>
Di pomeriggio passava invece a lapa del pizzicagnolo che vendeva il formaggio detto primu Sali, il cacio ragusano e il pecorino stagionato ancora trasudante gli umori oliati e speziati dal pepe nero, che lì sicuramente sapevano di tanfo, ma a tavola erano tanto odorosi.
A tutte le donne che compravano, lui concedeva prima un assaggio, porgendo con garbo un pezzettino di formaggio infilzato nella punta del gran coltello. E se per lui quello era un buon metodo per favorire la vendita, per noi bambini che ci avvicinavamo nostre mamme intente a mercanteggiare, era un frugalissimo, piccante spuntino, ma dopo che esse l’avevano assaggiato per prime con un morsetto dato sulla punta dei denti.
C’era anche don Peppino Pinto, il fornaio che portava a domicilio il suo pane cifrato con una “P”, e che, per accertarsi della bontà delle cinquecento lire d’argento, le faceva tintinnare sulla limita, del marciapiede, dimostrando come avesse ben istruito l’orecchio nel distinguere le monete false dalle buone.
C’erano Salvatore, Torretta e Ferraguto, che pedalavano in sella alle loro chimere per metà prore di barca e per metà tricicli. Esse verniciate di bianco e bordate d’azzurro, sulle murate avevano dipinto in elegante corsivo la scritta “Gelati”, mentre nel cuore ghiacciato del loro fasciame trasportavano granite al gusto di limone, mandorla e cacao.
I gilatari, sin dalle prime ore del mattino si annunciavano con un caratteristico sibilo acuto e intermittente del fischietto, a cui seguiva il grido <<>. E il loro passaggio non poteva che essere l’arrivo del fresco companatico per la particolare colazione estiva dei paesani fatta, per l’appunto, di pane e granita.
Una volta al mese passava u Ciuriddiano, il venditore d’olio d’oliva così chiamato perché proveniente da Floridia. Egli vendeva l’olio sfuso al minuto, misurandolo col cafiso, l’antica unità di misura a forma di anfora con il caratteristico foro nel collo che indicava il pieno.
Passava per le vie anche l’indimenticabile venditore da Citrata i Morica, dolce realizzato con zucchero e scorza di cedro. L’omone, con la coppola dall’aspetto piacevole, indossava sempre sopra una candida camicia il gilè nero. Spingendo a braccia il carrettino, squarciava il silenzio del primo pomeriggio con la sua possente voce tenorile, magistralmente usata per bandire la cedrata. Egli è stato l’unico venditore ambulante forestiero, ad avere riconoscenza della benevola fiducia dei suoi clienti del mio paese. Riconoscenza per oltre cinquant’anni d’interrotta attività, manifestata per sua volontà dal figlio sui manifesti listati a lutto che annunciarono alla città la sua dipartita. Mesta notizia che procurò a molti la sincera commozione, oltre il risentire l’eco del suo grido dal registro acuto ed esteso che diceva <<>>.
C’era, ancora una volta, l’amico di Prometeo, don Carmelo il carbonaro, che nelle sere d’autunno, all’angolo della villa comunale, diventava venditore di caldarroste. Lo rivedo mentre apre la presa d’aria do caliaturi per ridare vigore ai carboni ardenti, poi gettare dentro il cestello pieno di castagne il pugno di sale che le fa scoppiettare tra una miriade di faville che si proiettano impazzite nell’aria con l’odoroso fumo, facendo apparire quell’arnese come un vulcano, lo stesso Etna dai cui boschi provenivano quei buonissimi marroni. Risento l’odore gradevole del fumo che avvolge il vicino quartiere e gli stessi viali della villa, preludio delle prime caldarroste già pronte, vendute dentro un cono di carta strappata da un mucchio di vecchi fotoromanzi Grand Hotel, quelli con le copertine disegnata da Walter Molino.
Rammento che, puntualmente tutte le sere sotto la gradinata del Cinema Kursaal, sostava un carrettino illuminato da una piccola lampara da pesca alimentata a gas, dove si vendevano lupini, semi di zucca salti, noccioline americane, ceci e fave abbrustoliti. Il luppinaro pesava la merce sulla bilancetta appesa ad una struttura di legno dotata di cassettino, dove apparivano ormai sbiaditi i motivi ornamentali presi dal carretto siciliano e un fiocco rosso scolorito, da cui penzolava il caratteristico amuleto a forma di corno, elemento indispensabile per tenere lontano le forze malefiche e pericolose sprigionate dai possibili occhi rassi e mmiriusi.
Per le strade capitava d’incontrare anche chiddu do ferru vecchiu, che per poche lire acquistava qualsiasi cosa fatta di metallo prediligendo però quelle di rame. Oppure u siggiaru, che girava con gli arnesi sistemati nel tascapane portato a bandoliera, e lavorava davanti le porte riparando le maglie di giunco dei sedili di qualche Thonet d’epoca o sostituendoli completamente con dei nuovi di compensato stampato, certamente più sbrigativo ed economico. E ancora u mmola forbici e cutedda, l’arrotino anche lui con la Motom rossa, con la grossa pietra mola fissata sul portapacchi posteriore e collegata per mezzo di una cinghia alla ruota motrice.
In fine all’angolo della Cruci tri cannoni ebbi la fortuna di vedere, appena due volte, in quella veste la figura a me più cara, l’uomo calzato di stivali, con i pantaloni chiazzati dal sale dell’acqua di mare. Accanto a lui, posati a terra due secchi colmi di polpi pescati nella notte e la bilancia con i piatti di rame. Quel pescivendolo di giorno ma pescatore di notte, era mio padre.
Io tenuto per mano dalla mamma, guardando dentro quei secchi rivedo il tentacolo di un polpo, rimasto attaccato per le ventose alla parete del secchio, nel suo ultimo tentativo di fuga. Osservo, anche una seppia ancora semiviva concedersi il suo ultimo dispetto. Come se essa fosse a conoscenza della sua sorte, repentinamente, per l’ultima volta, cambia i suoi mimetici colori e sbruffando il suo prezioso liquido nero, proprio davanti all’acquirente ad essa interessato, svaluta il suo prezzo. Rivivo quel rari incontro con mio padre che manifesta il suo affetto dandomi un bacio e una carezza, e riservare alla mamma una buona parola. E lei. Tenendomi stretto per mano, guardando con discrezione dentro i secchi, saluta con un semplice: <>. Mentre io con forza, opponendomi alla sua presa, le chiedo con insistenza, e coll’inutile aiuto di qualche lacrima, di lasciarmi con lui.

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