16/11/03

Lettera d’Amore

di Angela Rizzo Mazara del Vallo (Trapani), Terzo Classificato

Assistiamo, nel racconto, come davanti ad uno schermo cinematografico, al materializzarsi di una lettera d’amore diretta in effetti a noi stessi, che siamo sempre eredi di colui al quale la lettera sembra essere indirizzata. Quel qualcuno che non c’è più, il padre nel racconto, del quale ricordiamo tutto, è in effetti la forma materiale, fisica, che diamo ad un viaggio sentimentale che ci piace percorrere o ripercorrere alla ricerca di momenti perduti, occasioni mancate, parole non dette, consigli non ascoltati.
E’, questa lettera d’amore, un delicato lavoro di cesello condotto nel labirinto dei sentimenti, ma nel contempo una disperata ricerca di quello che l’Autore poteva essere e che oggi, da adulto, non potrà essere se non il riflesso di colui, il padre, che oggi non c’è più.

Carissimo,
soffia un fortissimo vento di scirocco e lo sento attraversare il fogliame degli alberi, scuotere le imposte, generare scompiglio come una divinità collerica e impetuosa. Ho spento già la luce e assaporo la sicurezza del mio letto, circondata dal contorno dei mobili che si stagliano nella penombra. Sai che non mi piace dormire nell’assoluta oscurità: voglio intravedere, attraverso le persiane socchiuse, il chiarore dei fanali della strada, che amo più di quello lunare, così freddo, estraneo, lontano dall’uomo e indifferente alla sua sorte. Ai miei occhi, la luce artificiale è una conquista così importante dell’intelletto che, al suo confronto mi appare scialbo il brillare delle stelle.
Tu, invece, amavi il buio assoluto e chiudevi ermeticamente le imposte, avvolgendoti nell’involucro di un riposo che non concedeva alcun spiraglio al mondo esterno.
Eppure, quante volte hai vegliato sotto la luminosità del cielo notturno! Imprigionato nella tua divisa, durante la guerra e durante la pace, chissà quali pensieri hai inseguito!
Sento l’impulso di chiamarti, ma devo soffocarlo. Troppe volte sono caduta nella ragnatela della nostalgia e ho cercato un contatto con te, puntualmente delusa dal silenzio. Gli anni sono trascorsi così in fretta! Avevi ragione tu quando mi spiegavi che la vita è una precipitosa corsa verso un traguardo non desiderato, al quale si arriva senza fiato e senza forze, con il rimpianto di non avere soffermato lo sguardo sui particolari del cammino percorso.
Ti ascoltavo distrattamente, spesso annoiata, con l’arroganza e l’ignoranza di chi crede di avere davanti a sé il mondo intero. Adesso sì, adesso che il tempo mi ha insegnato abbastanza e ha piegato la mia superbia, adesso sì che m’interesserei alle tue riflessioni.
E’ tardi. L’orologio sul comodino esegue fedelmente il suo compito e continua a scandire le ore, i minuti, i secondi con la stessa stolida precisione del boia che prepara il cappio, del comandante che ordina il massacro delle sue truppe, del chirurgo che esegue scrupolosamente un intervento di cui conosce a priori l’inutilità.
E’ tardi. Devo cercare di riposare. Domani dovrò rispondere, come sempre, alla curiosità dei miei alunni e fornire risposte adeguate alle loro esigenze. E’ necessario che mi presenti in condizioni fisiche e mentali perfette.
Devo essere in forma, devo, devo… Perché obbedire al senso del dovere che tu hai sempre rispettato? Perché essere schiava di questo imperativo, talmente connaturato in me da non riuscire a trasgredire e vivere senza imposizioni, come una creatura libera e ignara del domani? Mi hai fornito un esempio e io l’ho seguito: ormai è parte integrante del mio DNA.
La forza del vento è aumentata. Qualcosa rotola nel balcone del piano sovrastante, un sibilo carico di minacce turbina tra i palazzi del quartiere e diviene frastuono. La furia della natura mi ha sempre galvanizzato, risvegliando nel mio corpo un’ animalesca vitalità che percorre la spiana dorsale e raggiunge il cervello, stimolandolo a percezioni inusuali.
Ti voglio bene, più di quanto immaginassi quando vivevamo insieme e dividevamo le consuetudini e i gesti ordinari di una vita apparentemente banale. Ti voglio bene e mi manchi più di quanto avessi creduto!
Sono stata scostante e impaziente, eppure avrei potuto sfiorare la tua anima. Non posso chiamarti per dirti che adesso potrei farlo. Non mi risponderesti.
Chissà come il mare è flagellato stanotte dalle sferzate del vento, quel mare così limpido e sereno in quelle stagnanti giornate estive in cui, insieme, ne gustavamo il refrigerio. E’ importante galleggiare e tu mi istruivi in questa importante conquista. Sentivo la tua mano sicura sotto la mia schiena e l’invito a lasciarmi andare, a rilassarmi. E grazie ha te ho raggiunto l’autonomia e la capacità di abbandonarmi con fiducia all’abbraccio dell’acqua, con la stessa sicurezza del feto che si muove nel liquido amniotico.
Nella vita è essenziale non sprofondare mai nei flutti del caotico divenire e cercare di emergere, assecondando le forze naturali.
Dove sei? Mi hai abbandonata proprio quando ero già pronta a sfrondarmi degli orpelli inutili e futili dell’orologio, a chinare il capo non per rassegnazione o vigliaccheria, ma perché davanti a me balenava la verità del nostro essere.
La tua espressione pensierosa, i tuoi silenzi, le lacrime che furtivamente asciugavi… Che ne sapevo, allora, che eri un’aquila e che, a poco a poco, la vita di aveva trasformato in un uccello prigioniero?
Ho bisogno di spiegarti tante cose che ora ho compreso. Le barriere del pudore e della reticenza sono ormai crollate sotto l’impeto di una nuova forza.
Sento il bisogno doloroso di farti comprendere quanto importante tu sia e sia stato per me, una necessità tanto più angosciosa quanto più mi rendo conto che non mi ascolterai. Ed ecco subentrare in me una rabbia sorda, che forse lenisce la sofferenza.
Credevo di poterla dominare stanotte, ma si fa strada nella mia mente insonne e comincia a muoversi lentamente, poi aumenta il ritmo della sua danza e assume le forme di una baccante sfrenata. Le tempie mi pulsano e mi sembra che il cervello sia martoriato dal rullare di mille tamburi. Finalmente riesco a ritrovare la calma, ma non è altro che una sterile freddezza che anestetizza le emozioni.
L’idea di sentirsi defraudati, traditi, abbandonati e ignorati è un efficace antidoto al veleno del rimpianto e della nostalgia. Non sei altro che un egoista, un uomo che ha dimenticato il suo passato e gode i piaceri di un’esistenza nuova, priva d’affanni e di problemi. Se fossi al tuo posto, mi arrampicherei sulle montagne più elevate e guaderei i fiumi più pericolosi, attraverserei i deserti più desolati e nuoterei nelle acque più tempestose per ritornare indietro dalle persone che ho amato.
Tu, invece, sembri aver dimenticato tutto oppure stai attuando una crudele vendetta nei miei confronti, servendoti di quel silenzio che spesso ho usato con te. Sai bene quanto ferisca la presenza assente e muta dell’altro, quanto uccida più di una parola sgarbata! Hai tratto forse spunto da quel Dante, i cui versi sempre mi citavi? In questo caso ti obietterei che stai usando in modo ingiusto la legge del contrapasso perché io tacevo, ma era lì con la mia fisicità: tu non taci semplicemente, tu non ci sei.
La pioggia scrosciante che adesso sento riversarsi sulla terra riuscirà probabilmente a calmare la furia del vento, così come sta placando il mio assurdo e insensato furore. Come un balsamo dolce, dona sollievo al dolore del mio animo e mi riporta alla razionalità.
L’oscurità della notte ha il potere di esacerbare i pensieri, rendendoli simili ad affilate fruste con le quali ci flagelliamo, come eremiti che cercano la santità attraverso l’implacabile punizione del proprio corpo.
Immaginare che tu in qualche modo voglia punirmi è soltanto un infantile espediente per tentare di trasformare il dolore in risentimento. La verità è una sola: non riesco ancora ad abituarmi alla tua lontananza e rimpiango tutto di te.
Mi piacerebbe vederti ancora alle prese con i passatemi ai quali ti dedicavi nel tempo libero. Quelle assurde e improbabili composizioni floreali! Eri convinto di avere il pollice verde e mai più potrò osservare le bizzarrie barocche di quelle piante annaffiavi scrupolosamente. N on sapevi cuocere neppure un uovo ma ogni anno, puntualmente, ti affannavi nella preparazione della marmellata di uva che riversavi in un’infinità di barattoli. Nessuno aveva il coraggio di assaggiarla, ma tu la consumavi regolarmente, più per puntiglio che per piacere: non avresti mai ceduto all’umiltà di riconoscere la tua goffaggine nel campo culinario! Se tu tornassi, però, ti assicuro che spalmerei volentieri su larghe fette di pane quella poltiglia che mai riusciva a raggiungere la giusta consistenza, e ti farei compagnia nel sacrificio.
Tutto questo e altro farei e non so come dirtelo. E’ inutile che venga a cercarti in quello strano posto in cui mi dicono tu abbia preso dimora. So benissimo che non sei là. Tu vivi altrove, non sei tu quello che resta in quel freddo loculo.
Aiutami a trovarti e ricordarti che ti voglio un bene infinito, papà.

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