16/11/03

I Dolci

di Pizzo Antonella Ragusa, Prima Classificata

Un acquerello intimistico che sembra disegnato da Giuseppe Marotta, il quale ci porta per mano, passo dopo passo, attraverso indimenticabili itinerari urbani, verso una dimensione umana ai più sconosciuta ma in effetti reale e incombente nella vita di ciascuno di noi. Un racconto breve e pure tanto lungo da poter contenere innumerevoli flash di intensa luce etnologica, e ancora affetti, amori, sorrisi e pianti, una infinità di sentimenti, così come li abbiamo letti anche nel conterraneo Verga… una via di Sicilia insomma, anzi un ronco, esso stesso personaggio, che porta ad una casa dove una donna attende giorno dopo giorno il ritorno dell’uomo amato; una delicata storia raccontata con estrema semplicità e pudore, personificata attraverso il toccante colloquio che si svolge tra una madre, che non accetta la morte del marito avvenuta tanti anni prima, e la figlia la quale tuttavia accetta come naturale questa vita parallela vissuta dalla madre.
Quello era un piccolo paese e ce n’erano tanti. Li chiamano ronchi e sono strade cupe senza via d’uscita. In genere sono stretti e piccoli, spesso bui. Il sole, anche se di mezzogiorno, non riesce a penetrarvi. A volte qualche raggio più intraprendente si contorce e si allunga e riesce a lambire appena appena le pareti grigie delle case, infine stremato dallo sforzo lascia andare la presa. I basamenti sono fatti con lisci ciottoli che nelle stagioni fredde si velano di umidità, diventando viscidi e sdrucciolevoli, allora occorre aggrapparsi forte ai muri scrostati per non scivolare. Ce n’era uno che si chiama Rupe Tarpa e moriva in un precipizio delimitato da un basso muro. Affacciarsi da lì era un’emozione. La vista della magnificenza della vallata sottostante e di fronte i profilo deciso delle montagne confondeva i pensieri. Non tutti i ronchi erano belli come quello. Ai lati piccole rampe di scale, a ogni scalino vasi di geranio e di citronella, o ancora, gelsomino. Non mancava mai un vaso con il basilico o il prezzemolo, più o meno rigoglioso, a seconda delle stagioni. Scale esterne con passamani in ferro battuto o in muratura portavano in piccoli terrazzini fioriti. Le case, che viste da fuori si immaginavano piccole e umide, all’interno, grazie ai loro grossi muri che le proteggevano sia dal freddo che dall’afa, erano calde e accoglienti in inverno e fresche in estate.
Anna viveva in città ma da piccola aveva vissuto in una di quelle case. Al numero sette del Ronco Rupe Tarpa, invece, abitava da sempre Ida e Anna quel giorno andò a trovarla.
Quando Anna arrivò, trovò Ida che trafficava ancora in cucina. L’odore della cannella, che aveva versato a profusione sulle cassatine di ricotta che stava preparando, si mescolava agli odori delle erbe aromatiche che coltivava nel suo terrazzino, formando uno strano bouquet.
- Che bello! – disse abbracciandola,- hai preparato le cassatine che mi piacciono tanto… e che buon’odore di cannella, è così penetrante che fa girare la testa.
- Oh, si, - rispose Ida ricambiando con affetto l’abbraccio, - ma non ho preparato solo questo, ho cucinato tante altre cose. Guarda che meraviglia! – e prendendole la mano la portò in soggiorno e le mostrò vassoi pieni di bignet al cioccolato e di cannoli di crema gialla.
- Quanta roba, ma aspetti qualcun altro oltre me?! –
- Si, aspetto Giacomo, gli hanno dato una licenza premio. Mi ha scritto dal fronte che arriverà oggi. –
- Dal fronte? Giacomo? Ma quale Giacomo… sei sicura di stare bene?! –
Ida si allargò in un sorriso e i suoi occhi si illuminarono.
- Che dici, scherzi! Mai stata meglio in vita mia. Giacomo è il figlio di Massà Giuseppe, ricordi?! Il padre aveva il podere accanto alla nostra vecchia casa di Contrada Bellona. Ma lui non fa il massaro come suo padre. Si è arruolato nell’esercito e ha fatto carriera. Ha scritto ai miei genitori chiedendo la mia mano. – Ida parlava senza fermarsi, e intanto si sistemava i capelli e si lisciava con le mani il vestito. Il suo vestito era nero e neri i suoi occhi come pezzi di carbone, ma la sua pelle era bianca e i suoi lineamenti dolci.
- Se ti fa piacere, se vuoi, - riprese dopo una breve pausa, - puoi restare. Verranno tante persone oggi. Abbiamo invitato anche la Lisa con il marito, e anche la cugina Antonia con tutta la sua famiglia, te la ricordi la cugina Antonia? – Anna non rispose, così Ida continuò a raccontare.
- Fra la cugina Antonia e i miei genitori in passato non è corso buon sangue, sai.. hanno bisticciato a causa dell’eredità dello zio Vanni, ma alla fine si sono accordati. Ora, però, è da tanto che non li vediamo e questa ci è sembrata l’occasione giusta per fare una pace definitiva e scordare tutti gli antichi rancori.
- No, non posso, non posso restare, - rispose finalmente Anna, cercando con attenzione di trovare le parole adatte per non ferirla ,- lo farei volentieri, ma tu sai che per venirti a trovare ho lasciato i bambini in città dalla mia amica Sandra.
- Ma potresti andare a prenderli i tuoi bambini, la casa è grande e c’è posto per tutti, e io li vedrò con piacere, è tanto che non me li porti. Ti prego sarei contenta se anche tu e la tua famiglia partecipaste alla festa del mio fidanzamento.
- Va bene, andrò a prendere i bambini. – Anna aprì la porta e uscì nel terrazzino e stancamente discese gli scalini. Ronco Rupe Tarpea. Ah, lo conosceva bene il ronco, aveva passato tanti pomeriggi seduta negli scalini a studiare il percorso delle formichine. Si rivide bambina correre per quella stradina e poi affacciarsi dal muretto a guardare, sotto, quel mondo sconosciuto fatto di alberi inerpicati nella roccia, e cespugli di felce rigogliose… e risentì l’odore del finocchietto selvatico. Si affacciò anche quella volta a guardare gli alberi d’oleandro dai fiori rossi e bianchi e gli ammassi di rovi fioriti e le more che sempre raccoglieva in Agosto facendo attenzione a non graffiarsi e a non macchiarsi gli abiti. Grosse more nere, dolci e succose.
Restò affacciata per un tempo indefinito, fino a quando quel sentimento di nostalgia che sempre provava quando tornava in quel ronco si trasformò in lacrime lente e calde e per questo confortanti. Prese un fazzoletto e asciugò i suoi occhi. Non aveva scelta, era necessario farlo. Avrebbe telefonato ad Andrea, suo marito, sarebbe passata a prendere i bambini e sarebbe ritornata.
- Pronto Andrea, ciao sono Anna, sto andando a prendere i bambini e sto ritornando da lei.. peggiora ogni giorni di più. Non posso lasciarla sola.
- Così Anna fece ritorno nella Casa di Ronco Rupe Tarpa. Entrò in soggiorno e seduta sul vecchio e liso divano di velluto bordeaux, trovò Ida che singhiozzava. Lei non si curava neanche di asciugare le sue lacrime, né di nascondere le smorfie che il suo vecchio viso faceva. Le lacrime scendevano piano dalle gote avvizzite e snervate, e bagnavano il colletto del suo abito nero di lutto. Piangendo ripeteva, con il medesimo tono, le stesse parole.
- Giacomo non è venuto, gli avevo preparato i dolci che gli piacevano, ma non è arrivato. E ora di questi dolci che ne faccio? Anna si sedette accanto a lei e la abbracciò con tenerezza.
- Non piangere, non piangere fai piangere anche me. Non vedi che i bambini ti guardano. Si preoccupano nel vedere piangere la loro nonna. Vedrai che tornerà domani, avrà avuto un contrattempo. Stai calma, li mangeranno i bambini i tuoi dolci, e poi ne farai degli altri.
Ida sorrise.
Sul tavolino del salotto buono una grande cornice d’argento e la foto scolorita di un soldato: Cielo del Mediterraneo giugno 1942 – XX Tenente Giacomo Lantieri – Medaglia di bronzo. Anna la guardò e con la mano accarezzò paino quella foto.

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